lunedì 28 dicembre 2009

Sfinge: "L'incubo di Hill House" Shirley Jackson


Qualche mese fa su questo blog vi parlai di “Abbiamo sempre vissuto nel castello”, un romanzo di Shirley Jackson. “L’incubo di Hill House” è considerato uno dei libri più importanti di questa scrittrice, portato sugli schermi con risultati dal pessimo al discreto e che come i suoi altri annulla le definizioni di genere e ci porta in una terra di mezzo, che conserva una similitudine col nostro mondo, eppure non gli somiglia.

Anche in questa storia è una casa ad essere al centro degli avvenimenti, una magione signorile a pochi chilometri da un piccolo paese di provincia i cui abitanti guardano con timore e invidia la collina su cui si erge: ma se nel romanzo precedente si trattava di un elemento aggregante, un simbolo di unità della famiglia, Hill House, nata per accogliere il suo costruttore e i suoi cari, è invece deus ex machina dell’implosione di quel nucleo, del collasso dei valori di cui doveva essere custode, delle vite dei suoi abitanti.

E’ un vero personaggio, anzi la protagonista, viva quanto e più dei visitatori. Dalla prima pagina Hill House è presente in ogni istante in qualunque conversazione, motivo generante, come Kurtz in “Cuore di tenebra” o Harry Lime ne “Il terzo uomo”. Viene descritta accuratamente, dentro e fuori, ne viene indagato il passato, il presente, il suo carattere; perché Hill House ha un suo carattere.

Il professor Montagne, accademico interessato ai fenomeni paranormali decide di studiarla, per stabilire la natura delle manifestazioni che vi hanno luogo: sono spiriti? Maledizioni? Per farlo vi passerà l’estate insieme ad alcune persone che si siano distinte per un episodio riconducibile al sovrannaturale avvenuto nella loro vita: due ragazze, Eleanor e Theodora, e Luke, nipote dell’attuale proprietaria di Hill House.

Le due donne sono una l’antitesi dell’altra. Theodora è bella e disinibita, egoecentrica, sa come ottenere ciò che vuole; al contrario Eleanor –che ha passato gran parte della propria vita ad occuparsi della madre inferma non avendo occasione di sbocciare e completarsi come essere umano- è una sognatrice, infantile e bisognosa di affetto e riconoscimento. Attraverso i suoi occhi assistiamo allo svolgersi degli avvenimenti.

Il piccolo gruppo si costituisce e si unisce sotto il tetto di Hill House, prima con atteggiamento di sfida nei confronti dell’ignoto, poi di attenzione, di terrore. Ma nessuno, a parte Eleanor, pare mai perdere contatto con la propria parte logica o accettare l’esistenza di qualcosa che va al di là della propria conoscenza e quando l’abbraccio della casa si chiude su di loro solo Eleanor pare percepirlo realmente. La dicotomia tra le giovani si esaspera, Theo è sempre più egoista e Nell (Eleanor) sempre più fragile e dipendente, e nonostante gli scontri continui il loro legame diventa profondo. Lentamente il lettore ed i personaggi scivolano di qualche grado oltre la realtà dove le regole non sono più quelle conosciute e le persone appaiono per quello che sono o per quello che potrebbero essere. I fatti diventano indistinguibili dai sogni, la follia dalla sanità. Il finale non risolve l'enigma e Hill House rimane immobile, intoccata, il suo segreto non verrà svelato.

Shirley Jackson ha scritto un capolavoro di ambiguità, giocato interamente su fatti riportati in modo frammentario che creano l’illusione di conoscere (la) verità senza darne alcuna conferma. E pur mantenuto in una sorta di limbo sospeso d’incertezza, il lettore rimane totalmente preso, prigioniero dell’incantesimo di Hill House.

Un romanzo dal fascino ineludibile, che si presta a moltissime interpretazioni (non ultima quella psicanalitica), destinato come la sua protagonista, a non invecchiare.

(Shirley Jackson “L’incubo di Hill House” 2004 Adelphi)

domenica 20 dicembre 2009

Un Libro a Milano

Dalla nostra corrispondente Ilaria Prigione, uno sguardo sul salone della piccola e media editoria che si è svolto la scorsa settimana a Milano. Grazie ad Ilaria per il suo contributo!

UN LIBRO A MILANO è il titolo del primo salone dedicato alla piccola e media editoria indipendente svoltosi a Milano l’11, il 12 e il 13 dicembre nella zona di via Tortona, all’interno di uno spazio bonificato e trasformato da ex capannone industriale a luogo adatto a manifestazioni culturali o ad esposizioni. Durante i tre giorni si sono susseguiti parecchi eventi a partire dall’inaugurazione che ha visto protagonisti oltre a nomi noti nell’ambiente “indie-letterario” ( ma non solo) anche la madrina della manifestazione, la cantante Alice. Parecchie le case editrici partecipanti (ben 67) e gli autori che hanno presenziato presso gli stands presentando i loro scritti. Dibattiti e tavole rotonde hanno scandito le tre giornate occupando i vari spazi distinti dai colori blu e rosso, molto spesso sovrapponendosi.

Ai più piccoli sono stati dedicati il sabato e la domenica pomeriggio con letture animate, laboratori creativi e momenti di gioco.

Personalmente, da amante dei libri e ricercatrice di nuovi talenti, ho trovato il salone un po’ scarno, gli stand confusionari e la location poco segnalata. Ora che finalmente si è pensato di dedicare spazio e tempo alle piccole realtà editoriali, dando l’opportunità ai vari espositori di mostrare le loro pubblicazioni, spero che l’evento si ripeta il prossimo anno, apportando delle modifiche e pubblicizzandolo maggiormente.

La mia impressione è stata la stessa che provo quando sento parlare della musica indie: un senso di chiusura, quasi di isolamento voluto da coloro che fanno parte del settore e che a fatica si ritagliano un posto tra le miriadi di nomi conosciuti. Inoltre, segnalo il fatto che l’evento si è svolto sì, in una zona super “laccata” di Milano, ma semi-deserta e poco centrale, perciò a mio parere inadeguata. Nel complesso, mi sento di dire che Un libro a Milano è senza dubbio un salone interessante e curioso, proprio perché dà l’opportunità conoscere realtà letterarie che troppo spesso passano inosservate. Spero di farvi un piacere segnalandovi due case editrici: la Zambon Editore che ha parecchi distributori italiani ma la cui sede è a Francoforte www.zambon-verlag.de che, come è scritto sul depliant informativo: “…si rifiuta di seguire le mode del revisionismo e del negazionismo nel campo della saggistica e della ricerca storica, ed anzi le combatte” editando saggi politici, diari storici e biografie piacevolmente di parte. la Kalandraka edizioni di Firenze invece pubblica bellissimi ed intelligenti albi illustrati per bimbi e adolescenti; inoltre, in collaborazione con Il Dipartimento di Educazione del Comune di Santiago di Compostela e in occasione della X Campagna di Animazione alla Lettura, ha promosso il III Premio Internazionale COMPOSTELA per albi illustrati : www.kalandraka.it .

venerdì 18 dicembre 2009

Torte: Buon Compleanno Wanda June!


All’inizio degli anni settanta Kurt Vonnegut decise che avrebbe abbandonato la scrittura di romanzi per darsi esclusivamente alle commedie. Non perseguì a lungo questo voto, ma di quella solenne promessa ci resta “Buon Compleanno, Wanda June”.

Non intendendomi particolarmente di testi teatrali non mi addentrerò a fondo in questioni di competenza di registi e drammaturghi.

Cuore e nucleo della commedia è ancora una volta l’urgenza di Vonnegut di condannare qualunque forma di conflitto violento e ci mette tutta la sua abilità ed il suo tagliente umorismo. Manca il sottile cinismo e la rassegnazione che contraddistinguono opere come “Mattatoio 5” o “Ghiaccio Nove” o “Madre Notte”, ed i personaggi sono limpidi nelle loro esternazioni e immersi completamente nella loro vicenda. C’è invece l’impeto e la speranza pacifista che in quel periodo portarono a credere alla fine di tutte le guerre.

In questa sorta di lungo sketch alla “Saturday Night Live” Harold, un moderno Ulisse, torna a casa dopo 8 anni dalla moglie Penelope che lo crede morto e dal figlio Paul che, come Telemaco, aspetta con ansia il ritorno del padre. In effetti è l’unico, dato che Harold è ricordato come un uomo coraggioso ma spietato, grande combattente. La sua casa è tappezzata di trofei di caccia, la sua opinione delle donne è carica di sciovinismo.

Durante la sua assenza Penelope s’è presa una laurea e, dopo che il marito è stato ufficialmente dichiarato morto, ha cominciato ad uscire con altri uomini. Il suo fidanzato è Woodly, un medico pacifista sul modello dei migliori frikkettoni dell’epoca.

Nell’appartamento di Harold e Penelope si scatena la furia del primo, che è ben deciso ad imporre la sua prepotenza come un tempo e a ristabilire gli antichi equilibri. Ma in otto anni le cose cambiano e il suo atteggiamento in breve si spoglia dell’aura mitica di grande cacciatore rivelando un uomo minuscolo che cerca il conflitto perché non sa rapportarsi in modo diverso con gli altri.

A dare un tocco di surrealtà alla situazione (se ce ne fosse bisogno) sono alcuni fantasmi (che compongono una specie di coro greco): un criminale nazista, una moglie precedente di Harold e la piccola Wanda June, una bambina di 10 anni investita da un camion il giorno del suo compleanno e finita in paradiso, del quale ci racconta meraviglie, prima tra tutte il gioco delle bocce, che pare essere pressoché l’unica attività praticata lassù.

Trattandosi di una commedia, Kurt ha dovuto rinunciare alle strutture narrative barocche a cui ci ha abituati e sintetizzare moltissimo il suo pensiero, risultando forse leggermente didascalico. Non vi sono grandi indicazioni per la messa in scena e dobbiamo pensare che il regista, il produttore e gli attori che la recitarono per pochissime repliche abbiano goduto della massima libertà d’azione. Tuttavia, il marchio di fabbrica è innegabile e la personalità di questo straordinario scrittore traspare chiaramente dalle situazioni, dai personaggi e dalle battute, dirette ma fulminanti. Soprattutto per chi già lo ama. Ma non solo.

(Kurt Vonnegut “Buon Compleanno Wanda June” 1995 Elèuthera Editore)

sabato 5 dicembre 2009

Salone del Libro Usato 2009

Mentre migliaia di persone si pigiano selvaggiamente prendendo d'assalto la fiera di S.Ambrogio (conosciuta come "Obei Obei") e l'ormai rituale (e pare sempre meno interessante) fierone dell'Artigianato alla Nuova Fiera di Milano, io mi dirigo con allegra sicumera verso il Salone del Libro Usato.
Adoro i libri usati: difficili da trovare o addirittura rari, recuperati a volte dopo ore di scavo paziente a volte beccati al primo colpo, per pura fortuna. Mi trovo irresistibilmente attratta verso i volumi vissuti, dedicati a sconosciuti (regali poco graditi?), che possono contenere vecchie cartoline, biglietti, messaggi. Storie nella storia.
Bando alle romanticherie, arrivo e mi faccio i complimenti, il salone non è affollato, si può girare comodamente senza trovarsi il gomito di qualcuno negli occhi. Mi lancio leggiadra sulle bancarelle e subito trovo un libro di commedie per burattini: 3 euro, mio.
Altra bancarella, di tutto un pò, libri di Stendhal e di Costanzo, oh, cos'è questo? Un trattato di elettronica del 1962, quanto costa? 2,5 euro, mio.
Banchi di tascabili, bestselleroni, libri antichi, stampe, libri di cinema e teatro; mi capita una raccolta di Bulgakov a metà prezzo e becco tre introvabili volumi di Fredrick Brown ("Vagabondo dello spazio", "Tutti i racconti" e"Gli strani suicidi di Bartlesville") in una bancarella specializzata in fantascienza dove c'è anche un'edizione di "Galapagos" di Kurt Vonnegut. Li pago ben 78 euro, ma si sa, c'è ben poco di Brown sul mercato, quindi meglio non lasciarseli scappare. A questo punto però ho esaurito le finanze e non mi resta che girellare con gli occhi fuori dalle orbite, sperando di non vedere niente per cui potrei uccidere.
C'è un signore tedesco che espone libri per bambini molto vecchi e molto belli, un altro che ha portato fumetti d'ogni genere e un banco pieno di guide di viaggio vecchie e antiche.
Sono passate due ore appena, intense e veloci. Forse tornerò domani. Nel caso, ci vediamo là.

Salone del Libro Usato 5/6/7/8 dicembre 2009 presso Fiera Milano City

mercoledì 2 dicembre 2009

Back in time! A.M. Homes "Jack"


Ovvero, cosa succede ad un adolescente americano quando scopre che suo padre se n’è andato di casa perché è gay. Da questa premessa che può essere più o meno drammatica, A.M. Homes, a soli diciannove anni ha tratto questo romanzo, incredibilmente maturo e consapevole.

Jack è un ragazzo normale, mediamente problematico, gioca a basket e dopo due anni dalla separazione dei genitori, viene finalmente messo a parte della verità.

Le sue prime reazioni sono prevedibili, vergogna, terrore che qualche compagno venga a conoscenza del terribile segreto e faccia l’equazione tale padre tale figlio, una serie di gaffes e di considerazioni decisamente comiche. Sua madre, nonostante non sia una frikkettona hippy radicale (anzi, è molto “media”) cerca di convincerlo che non c’è niente di male nel nuovo modo di vivere di suo padre. Le cose sembrano destinate a non riaggiustarsi mai. Jack vede il suo futuro come un’infinita proiezione del momento presente, degli sfottò, della sua scarsa popolarità, del suo sentirsi inadeguato ed escluso con quella sua famiglia sbilenca e così fuori dagli schemi.

Poi però, si rende conto che le cose non restano sempre uguali. Ma anche che le famiglie perfette a volte non sono così perfette, che non è l’unico ad avere certi problemi, e che anche lui può piacere ad una ragazza carina. La vita cambia, diventa tridimensionale, alcuni dolori sono superati, molte paure si dissolvono, altre se ne scoprono e alla fine Jack sa che può affrontare il futuro.

Con una narrazione leggera e divertente, la scrittrice americana racconta un intreccio tutt’altro che semplice da rendere senza cadere (soprattutto all’età in cui fu scritto il romanzo) in trappole come la mitizzazione dell’adolescenza o la tentazione di colpevolizzare i genitori per ogni tristezza e difficoltà vissuta dai figli. A.M. Homes affronta in modo realistico argomenti dolorosi, rispettandone la delicatezza, spogliandoli del melodramma gratuito e aggiungendovi uno humour che rende la lettura ancora più gradevole e pervasa da un vago senso di speranza, tipico anch’esso, insieme alla disperazione, degli anni dell’adolescenza.

E’ una lettura che può sicuramente piacere a tutti, coinvolgendo giovani e adulti, chi ha fresche memorie da teen-ager e chi ha bisogno di un piccolo ripasso di quelle emozioni.

Ottima l’edizione Minimum Fax (adoro il formato compatto) con la traduzione di Adelaide Cioni.

(A.M. Homes “Jack” 2004 Minimum Fax)

lunedì 16 novembre 2009

Chi legge le prefazione?

Normalmente le evito.
Prima di tutto perchè sono curiosa, presa dalla fregola di leggere il volume, di conoscere il suo contenuto, di farmi conquistare dalla storia. Poi, perchè sono convinta che se un'opera letteraria vale, non c'è bisogno di "spiegarla", sarà compresa comunque, anche senza che prima uno studioso te la illustri. Anche se il linguaggio è quello di Shakspeare o di Euripide, la grandezza delle loro opere non può non raggiungere il lettore. Certo, magari con uno studio della lingua possiamo arrivare ad apprezzare maggiormente certi versi, certe espressioni, ma l'intreccio, i personaggi, lo sviluppo delle vicende, se è veramente forte, non ha bisogno di una mappa per essere capito.
Analizzando l'opera dal punto di vista letterario o addirittura psicologico, è poi facile che il relatore ci riveli parti salienti della storia o del carattere dei personaggi. Per esempio, in una versione de "Il giro di vite" di Henry James in mio possesso, c'è un'accurata analisi del comportamento della protagonista, che finisce per svelarci quasi tutto di lei. Fortunatamente l'ho letta dopo il romanzo, il che mi ha permesso di dar forma a determinate teorie personali e rispondere alle domande che mi ero fatta.
Di solito la prefazione la leggo dopo l'opera e allora sì che mi serve, per aiutarmi a capire certe cose, e indirizzarmi verso una critica e un'interpretazione dei motivi per cui è stata scritta. Magari ti viene rivelato un episodio della vita dello scrittore che dà una chiave di lettura a tutto lo scritto o semplicemente amplia l'orizzonte storico, aggiunge connessioni con altri autori contemporanei paragona altre opere a quella che abbiamo letto.
Pensavo di essere l'unica a non leggere le prefazioni, e mi sentivo un pò ignorante e limitata. Ho scoperto però che anche una professoressa di letteratura che conosco fa esattamente la stessa cosa.
In conclusione, anche se non le leggo prima, non sono contro le prefazioni, e anche se c'è quel "pre" a definirle, si può attingere alle loro informazioni quando si vuole, o non attingervi affatto.

venerdì 13 novembre 2009

Della Scuola 1: Domenico Starnone "Ex Cattedra"

Tra stupidari e cronache varie, la letteratura scolastica è un territorio ricco d’ispirazione: professori e studenti da anni si dedicano a raccontare la loro esperienza quotidiana, una di quelle che più lasciano il segno nella vita. Si tratta di libri che raccontano storie e contemporaneamente registrano l’evoluzione (o involuzione) dei sistemi scolastici, che cercano di dimostrarne i limiti educativi e (a volte) di come essere bravi a scuola non sia per forza la chiave del successo nella vita.

Tra il 1985 e il 1986 Domenico Starnone, professore (allora) di materie umanistiche e scrittore, insegnava in un liceo di Roma. Sulle pagine de “Il Manifesto”, teneva un diario di quell’anno scolastico, una specie di blog ante litteram in forma cartacea. Il titolo della rubrica era “Ex Cattedra” e questo libro raccoglie gli articoli pubblicati.

A quei tempi andavo al liceo, avevo 17 anni e sbavavo per partecipare alle manifestazioni e contestare l’allora Ministro Falcucci, di cui al momento non ricordo neanche i lineamenti. Purtroppo frequentavo una scuola privata e quindi di cortei e striscioni non si parlava neanche. Dopo più di vent’anni, di quelle lotte che durarono così poco, sgonfiandosi nel giro di qualche mese, rimane solo il ricordo -e non per tutti, scommetto.

Ma le storie di quell’anno scolastico vissuto da Starnone sono rimaste nero su bianco e potrebbero essere quelle di una qualunque scuola italiana. Ci sono gli allievi straripetenti, quelli che suonano una batteria invisibile, quelli che snobbano il programma scolastico e si dedicano ad altre letture, gli inattaccabili secchioni desiderosi di compiacere il prof (che a questo scopo intraprendono la lotta studentesca). I professori intrecciano relazioni sentimentali sotto gli occhi inorriditi del preside e del parroco che insegna religione, si scatenano guerre intestine ideologiche e lavorative tra insegnanti ed autorità scolastica a base di circolari e dazebau appesi nella bacheca della sala professori, irrompe il precariato, problema già diffuso allora.

E poi, gli amori contrastati degli studenti e le temute gravidanze, l’autogestione, gli scrutini, le infinite ed inutili riunioni. Il tutto intrecciato con gli avvenimenti di quell’anno, dal bombardamento di Lampedusa da parte della Libia alla nube di Chernobyl.

Starnone ed i suoi colleghi attraversarono l’anno scolastico sperando in un nuovo 68’ e rimanendo puntualmente delusi. Indulgenti coi loro allievi, vivevano con la sensazione di essere gli unici ad invecchiare in un mondo che di anno in anno restava sempre giovane ed uguale a sé stesso. Destino comune a tutti gli insegnanti, che se fanno il loro lavoro con coscienza e passione non possono evitare di soffrire dello scazzo degli studenti, dei problemi cronicizzati, dello sfascio della scuola pubblica Italiana, che forse non era così difficile prevedere anche nel 1985.

Un libro divertente e malinconico; non c’è bisogno di aver vissuto quegli anni per apprezzarlo, anche se certamente il filo dei propri ricordi scolastici aggiunge qualcosa alla lettura.

lunedì 2 novembre 2009

L'odio: Giuseppe Genna "Dies Irae", prima parte

Non lo faccio mai. Voglio dire, non scrivo mai di un libro che non ho ancora finito di leggere. Ma questa volta sento il bisogno di parlarne. Il tizio che mi ha prestato "Dies Irae" di Giuseppe Genna me lo ha pubblicizzato come se l'avesse scritto lui. Bellissimo, bellissimo, durissimo.
In passato con questa persona ho condiviso diverse letture, Ellroy soprattutto. Sangue, pestaggi, intrighi e violenza a tutto spiano. Non mi ritengo una perbenista, il sangue non mi fa impressione e credo di non essere un tipo particolarmente influenzabile, da anni mi nutro di horror e noir.
Ora sono pressapoco a pagina 254 e mi sto chiedendo se sia il caso di continuare a leggere quest'opera. Opera, non saprei neanche se sia il caso di chiamarlo libro, o romanzo. Io lo sto percependo come uno sfogo, un rigurgito, un'emorragia di memorie dolorosissime, proprie di Genna e di altre persone che ha conosciuto.
Parte da un ricordo comune a tantissimi, la tragedia del piccolo Alfredo Rampi, morto in fondo ad un pozzo nella primavera del 1981 , facendo inizialmente pensare che si tratti di un thriller-inchiesta su quella terribile vicenda. Già così ce n'è abbastanza per far star male un sacco di gente, me compresa. Si tratta di una ferita che rimane nel profondo di tutti quelli che vi hanno assistito, nonostante da allora si sia visto di tutto, compreso lo scoppio della prima guerra del Golfo in diretta, la caduta delle torri gemelle e un omicidio di camorra filmato e diffuso attraverso giornali e tv. Alfredo Rampi non l'ha visto nessuno mentre era nel pozzo, nessuno ha sentito la sua voce, eppure ci ha cambiato la vita, ci ha piegato dentro, la sua morte ha spezzato qualcosa che non si può riparare e non si può curare.
Genna inizia da lì per poi cominciare a parlare di sè, della sua famiglia, della sua giovinezza e dei dolori che si porta dietro. Ci sta che uno si sfoghi, ci sta che uno scriva per fare i conti con sè stesso, coi propri incubi e le proprie paure. E' un libro impubblicabile, lo dice lui stesso, un libro che non vende, perchè è roba vera, forse.
Io lo capisco, tutti scrivono per parlare di sè stessi e regolare i propri conti, ma quando alle proprie sofferenze, alla storia terribile di Alfredo Rampi, ai presunti intrighi dietro di essa si aggiungono le storie di altri due personaggi, Paola e Monica, la situazione diventa insostenibile. Soprattutto la storia di Paola, ex tossicomane, vittima di violenza in famiglia, ti porta veramente sull'orlo del suicidio. Genna ci si riferisce col suo linguaggio delirante che si avviluppa su sè stesso come una spirale, ripetendosi all'infinito, stritolandoti. Sai cosa sta per arrivare, non è un segreto, lo anticipi facilmente, ma poi.
Non ce la fai, non vuoi andare avanti e vorresti prendere a sberle il tizio che t'ha prestato questa mostruosità. Che senso ha leggere altre 600 pagine circa di quest'orrore? C'è un finale, una redenzione, una salvezza, o va avanti così fino alla fine? Perchè queste sono storie vere, non c'è un pietoso dio scrittore che aggiusta un finale per farti dormire sonni tranquilli. Mi sento che una guardona che spia la sofferenza altrui e non ne ho bisogno, io, non mi pascio di queste cose, mi fanno veramente star male e poi -davvero- non ci dormo la notte.
Non so, in questo momento continuerei a leggere solo per la mia fissazione di finire qualunque libro io inizi.

giovedì 15 ottobre 2009

Questioni

Mi hanno prestato un libro. E' stato un collega, mosso da ottimi sentimenti e in fondo da me incoraggiato, dato che il tema m'interessava. Dopo aver finito la lettura precedente, ho iniziato il volume: data la mia proverbiale diffidenza nei confronti dei gusti letterari altrui (se escludiamo alcuni scelti individui) non mi aspettavo granchè, ma certo non potevo immaginare una cosa del genere. Credo di avere tra le mani il libro peggiore che mi sia capitato di leggere da "Quinto pianeta" di Fred e Geoffrey Hoyle, recensito sul blog Doppiaazione tempo fa.
Una trama improbabile, un linguaggio didascalico e logorroico che vuole stupire i lettori per il suo lirismo, le sue immagini poetiche; un imbarazzo che inizia dalla prima pagina e per ora non molla.
Detto tutto questo, e specificato che per sopravvivere mi sono buttata immediatamente su un altro libro, vi chiedo: VOI lo finireste? Oppure lo restituireste con un sorriso ed una scusa ben costruita? E se lo finiste, ammesso di non cambiare idea sul valore dell'opera, cosa direste al collega? Una pietosa bugia o la verità, pur portata con garbo? Sareste in grado affrontare un dibattito continuando a sorridere e cercando disperatamente un lato positivo in tutta la faccenda?
Aspetto le vostre risposte.

domenica 11 ottobre 2009

Mafiaman! "L'inverno di Frankie Machine"- Don Winslow


Mio zio lo ha letto e passato a mio padre, il quale lo ha letto e passato a mia madre, la quale lo ha letto e passato a mia zia che l’ha letto ben due volte e lo ha poi restituito a mio padre, che lo ha poi prestato al mio fidanzato, che poi lo ha passato a me. “L’inverno di Frankie Machine” è ormai un libro di famiglia, e tutti lo hanno trovato bello, a volte entusiasmante. Secondo mio padre è quasi più bello de “Il padrino” di Mario Puzo.

La mafia di San Diego non è né ricca né furba quanto quella di Los Angeles o Detroit, è una mafia di serie B, ma non per questo meno violenta o spietata. Frank Machianno lo sa bene, ne ha fatto parte per anni, anche se ora si è ritirato e passa le sue giornate tra ben tre lavori, una ex moglie, una giovane figlia, una bella amante. E il surf, una passione giovanile che continua a praticare con dedizione.

Lui però, non era un picciotto qualunque, era Frankie Machine, killer praticamente infallibile, una vera leggenda. E quando qualcuno lo attira in una trappola per ucciderlo, Frank passa immediatamente al contrattacco e decide di scovare il mandante.

Inizia la sua ricerca, sospesa tra passato e presente, a mollo nei ricordi della vita precedente, nel tentativo di capire chi lo potrebbe voler morto e perché. Ritorna indietro con la mente e va a trovare i vecchi compari, facendo chiarezza dentro di sé, scoprendo quanto le cose siano cambiate per lui e per gli altri, quanto le cose che pensava essere andate in un modo, fossero in realtà accadute diversamente.

Un personaggio inedito, Frank, mafioso di piccolo calibro, mai diventato un vero boss, ma abbastanza accorto e fortunato da non essere mai finito in galera. Eppure conosciuto e temuto da tutti per la sua meticolosità e freddezza. Non è stato tirato dentro l’organizzazione “per caso”, la mafia se ‘è scelta, ma ha saputo pagare il prezzo dovuto per appartenervi, cercando di quando in quando di uscirne (senza troppa convinzione) e rimanendo comunque fedele alle proprie regole, alla propria moralità. Più si conosce e più piace quest’uomo dalle abitudini esageratamente italiane (tutte le mattine si tosta e macina il caffè, tanto per dirne una), la lealtà ed intelligenza che gli hanno reso amici personaggi ben più potenti e pericolosi di lui, disincantato e insensibile all’epica mafiosa creata dalle” famiglie” e resa famosa da film come “Il Padrino” di Coppola ( gustosi i commenti in proposito). Un padre che ama la figlia e vuol bene alla sua ex moglie, un vicino ideale sempre disposto a dare una mano, capace di ridiventare istantaneamente lo spietato The Machine.

Attraverso i suoi ricordi, gli incontri con mafiosi sui generis e con i loro figli incapaci, la sua vita famigliare, passata e presente, le amicizie, la storia si dipana, lucida, chiara e appassionante. Un meccanismo ben costruito in cui per avanzare dobbiamo tornare indietro e indagare nella memoria. Questa struttura di narrazioni parallele costituisce gran parte della bellezza del romanzo, unita allo sguardo vagamente malinconico e stanco (ma sostanzialmente privo di plateali rimpianti per la propria vita “dissoluta”) del protagonista; malinconico ma non triste, non geriatrico e rassegnato.

Il registro è realistico, quasi giornalistico per il distacco emotivo delle descrizioni; l’autore non cede a sentimentalismi, ma neanche cerca di scioccare il lettore con scene inutilmente truculente. La violenza viene illustrata senza compiacimento né moralismi. La mafia che svela questo libro è brutale, ogni tanto ridicola, popolata da personaggi curiosi, talvolta quasi simpatici e tuttavia pur sempre criminali; un mondo che per alcuni può essere affascinante, ma di cui Frank ha visto il lato più cupo e squallido.

L’unica critica seria è per il finale, forse un po’ scontato, hollywoodiano e poco consono a un personaggio “reale” come Frankie Machine; ma se lo leggete, deciderete voi.

(“L’inverno di Frankie Machine” Don Winslow Einaudi Stile Libero 2006)

sabato 10 ottobre 2009

Lo scozzese


Cose che piacciono a Martin Millar: la musica, il sesso, l’alcol, la storia, la letteratura, le fate, le ragazze coi capelli colorati e “Buffy l’ammazzavampiri”.

In ognuno dei suoi libri troverete quasi tutti questi elementi, anche se in quantità e qualità diversa. Che si tratti di una storia dichiaratamente autobiografica o di un fantasy metropolitano, gli argomenti di Millar sono inconfondibili; parla incessantemente di sé stesso, della propria vita e di quella dei suoi amici nelle città che ha abitato o visitato. Talvolta è il protagonista, altre sembra non comparire del tutto e invece è lì, presente sotto forma di personaggio secondario.

Cominciamo dalla musica, allora. E’ la spina dorsale di tutte le sue storie ed ogni romanzo ha la sua colonna sonora: i The fall in “Latte, solfato e Alby Starvation” ad esempio o i Led Zeppelin in “Io, Suzy e i Led Zeppelin” (appunto), che costituiscono una parte integrante ed imprescindibile del racconto. Questo romanzo in particolare non si può gustare appieno se prima non si è ascoltato qualche disco della band, dato che il ritmo è letteralmente scandito dalle loro canzoni, dalla descrizione delle copertine e dal commento dei testi. In “Fate a New York” due fatine scozzesi, abili violiniste, decidono di mettere su una band punk e di elettrificare i brani tradizionali scozzesi, creando scandalo nelle loro famiglie. La protagonista di “Sogni di sesso e stage diving” è una musicista di punk trash di Brixton (un sobborgo di Londra che fa da sfondo anche a “Latte, solfato…” ) e tutta la vicenda ruota attorno al suo desiderio di chiamare la propria band Queen Mab, dal nome della fata che porta i sogni agli uomini. Senza la musica rock insomma, non ci sarebbe Martin Millar e -anche se non saprei spiegarvi come- vi posso assicurare che i libri stessi risultano quasi come dischi: la scrittura “suona”, è dolce come le melodie scozzesi in “Fate a New York”, chitarrosa, incalzante, fibrillante in “Io Suzy e i Led Zeppelin”, acida e rumorosa in “Sogni di sesso e stage diving”. Non so come ci riesca, ma lo fa. Con poche frasi riesce a rendere perfettamente le atmosfere, ad inquadrare i personaggi, a renderli vivi.

Così abile nel descrivere il genere di vita condotto da molti giovani Inglesi (ma anche Americani), senza un soldo, con pochissime possibilità di trovare un lavoro, che abitano negli squat, egli è in grado di fare di un minimo spunto, anche il più modesto, un romanzo. E’ la realtà che meglio sa descrivere e infatti dei libri che ho letto i più riusciti sembrano essere proprio quelli ambientati a Brixton. Millar trasforma vicende in apparenza risibili in storie in grado di avvincere: un particolare minuscolo che a chiunque altro sarebbe sfuggito diventa il centro attorno al quale ruotano decine di personaggi, ognuno con lati positivi e soprattutto negativi e le proprie paranoie. Alby Starvation è forse il primo che viene in mente, ma essendo l’alter ego di Millar conta fino ad un certo punto. Molto più interessante è la già citata Elfish, la stage diver, assolutamente insopportabile ed antipatica, eppure nel suo egoismo un personaggio positivo. Sono spesso creature sgradevoli, come minimo dotate di deplorevoli abitudini igeniche, deboli, egoiste ed incapaci di dare una direzione alla loro vita. Martin li osserva senza giudizi e dando importanza alle loro piccole ambizioni, alle loro mete -che appaiono a volte davvero modeste per non dire infantili- che costituiscono il motore delle loro esistenze e li mettono in grado di fare qualunque cosa per raggiungerle.

Per quanto negativi, non si riesce ad odiarli veramente e alla fine, in qualche modo, tutti, buoni e meno buoni, raggiungono il loro lieto fine. Le situazioni più drammatiche si risolvono sempre o quasi nel migliore dei modi e spesso nei momenti “tragici” mi sono trovata a pensare “Sì, ma tanto arriva il lieto fine, adesso”; si tratta della speranza segreta di qualunque lettore di non dover vedere finire male un personaggio al quale si è affezionato, ma raramente nei romanzi di Millar si resta delusi in questo senso.

Quasi ad esorcizzare il male o a realizzare il sogno di un mondo in cui le cose si aggiustano sempre, Martin fa di tutto perché i conflitti vengano superati e se a volte può sembrare poco realistico (l’happy ending non è per forza l’ideale in termini di scrittura), è pur vero che ogni autore ha il diritto di scegliere i propri finali e che questa scelta è comunque un’espressione del suo stile e della sua personalità.

La struttura adottata nei quattro romanzi che ho letto finora è sempre la stessa: si narrano almeno quattro o cinque storie contemporaneamente, a volte evidentemente connesse, altre non così chiaramente legate. Il destino naturale di queste vicende (come di quelle di tutti noi) è d’intrecciarsi dando un senso finale al racconto. E’ un gioco divertente che funziona molto bene, ma può rivelarsi pericoloso: possono scapparti dei pezzi e ci possono essere talmente tante sottotrame che le conclusioni possono risultare a volte rutilanti e un po’ “tirate via”. E’ la sensazione che ho avuto per esempio con “Fate a New York”, in cui negli ultimi capitoli l’azione sembra animata da puro panico e ansia di arrivare alla parola fine rimettendo tutti i pezzi del puzzle al loro posto nel minor tempo possibile. E’ vero però che se anche si perde qualcuno per la strada non è detto che sia così importante…succede anche nella vita vera.

La vera magia di queste storie sta nel come ti sia impossibile smettere di leggerle una volta iniziate. Personalmente a finire un libro di Millar non ci metto mai più di una settimana (spesso di meno) e proprio la tecnica delle varie narrazioni incrociate aumenta la velocità di lettura e il desiderio di scoprire come andrà a finire. Oltre a questo, è un autore che conosce la letteratura (appassionato di Jane Austen, ha scritto una sua versione di “Emma”, conosce la poesia Inglese), abile a farti credere di aver creato qualcosa che anche tu avresti potuto scrivere. Ma la realtà è molto diversa, ci vuole veramente molto stile, leggerezza e capacità narrativa per fare quello che fa lui. Sareste in grado, ad esempio, di coniugare storia antica, poesia elisabettiana e punk rock in un solo romanzo? Non è da tutti.

Infine, grazie alle sue trame, ai suoi personaggi giovani e disperati, al suo humour malinconico e demenziale, Millar è quel genere di scrittore che può piacere a quasi tutte le età: l’adolescente si riconoscerà nella ragazza coi capelli colorati o nel giovane depresso per essere stato lasciato dalla ragazza, mentre il lettore più maturo farà magari più attenzione alla narrazione, alle citazioni dalla storia antica, ai contenuti più nascosti e “filosofici” delle sue storie.

In Italia sono stati pubblicati (e a volte ri-pubblicati) solo cinque libri (tradotti con una certa fedeltà) di Martin: oltre a “Latte Solfato ed Alby Starvation”(2004 Baldini e Castoldi) ed “Io Suzy e i Led Zeppelin”(2002 Baldini e Castoldi) ci sono anche “Fate a New York” (2004 Lain), “Sogni di sesso e stage diving”(2006 Lain), e “Ragazze lupo” (l’unico in questa lista che non ho letto, 2008 Fazi).

Se consultate il suo sito www.martinmillar.com lo scoprirete molto più prolifico. E’ tra le altre cose autore di una serie fantasy con lo pseudonimo di Martin Scott. Se avete un minimo di conoscenza dell’Inglese vi consiglio di leggere anche i volumi inediti nel nostro paese, il linguaggio è scorrevole e semplice, non dovreste aver problemi a finirli.

giovedì 8 ottobre 2009

Bücher! Bücher! Bücher!



Berlino è una città di librerie. Ce ne sono davvero a bizzeffe, moltissime di libri usati. C'è da perderci la testa e se uno non parla il tedesco, da rammaricarsene assai.
Durante la mia recente gita ho visitato "Dussmann" in Friederick Strasse, una vera caverna del tesoro per gli amanti della lettura: un negozio moderno (manca forse d'atmosfera) straboccante libri in Tedesco e lingue estere, una scelta enorme di tutti i generi possibili ed immaginabili e una ricca scatola delle offerte dove ho pescato un tascabile di Ambrose Bierce a meno di tre euri, straordinario. Non solo, ci sono cd e dvd. Insomma, ci abbiamo passato due ore e mezza, ed ogni volta che ci decidevamo ad uscire (passando dalla cassa, ovvio), una nuova sirena ci chiamava da uno scaffale.

Sul versante dell'usato invece, ho scoperto grazie a Ciambella il "Caffè Tasso" in Karl Marx Allee, un piccolo ma grazioso bar dai muri giallo sole e dall'arredamento tra il country e vintage, dove si organizzano anche spettacoli di burattini e concerti, che comprende anche una libreria di usato. All'esterno, quando il tempo lo permette, ci sono tre o quattro bancarelle piene di volumi. All'interno altre due sale tappezzate di scaffali, in cui potete trovare di tutto, narrativa, fantascienza (le copertine degli anni 60/70 sono bellissime!), lavori femminili, psicologia, teatro, scienze. Libri da pochissimi euri ed edizioni "d'epoca", discretamente pregiate. Ce n'è davvero per ogni gusto e mentre si beve un caffè o una cioccolata (vedi foto) si possono leggere i libri presi dagli scaffali e scegliere quali vogliamo comprare. Un posto tranquillo, ideale per passare un pomeriggio o addirittura la sera se volete assistere a qualche concerto o spettacolo. Grandioso!

venerdì 25 settembre 2009

Darsi fuoco: "Burned Children of America" Autori vari


1. Delle Antologie

Le raccolte di racconti sono sempre una buona occasione per scoprire nuovi narratori; alcune vengono ordinate per tema (da ragazzina ne ho comprate diverse di autori horror), oppure per età del gruppo di scrittori o per periodo storico della stesura, le varianti sono infinite. Sono a volte ingannatrici, perché magari i curatori hanno pescato il racconto più bello ed originale di uno scrittore altrimenti noioso e tu, entusiasmato ed ignavo, corri in libreria, ti compri l’opera omnia, te la porti a casa e infine mediti il suicidio quando ti rendi conto dell’errore commesso. Ma non deve per forza andare così.

2. Burned Children of America

A convincermi a comprare questo libro sono stati il titolo e la targhetta apposta dal libraio che urlava “Da leggere!”. Ho fatto bene, le mie previsioni sono state di gran lunga superate. Tra gli autori di questi racconti ci sono Dave Eggers, Shelley Jackson, A.M. Homes, Stacey, nomi che non a tutti saranno noti o i cui libri avrete notato senza decidervi a comprarli, ma appartengono ad autori giovani e a volte già affermati; i loro lavori potrebbero esservi noti per vie traverse: ad esempio, A.M. Homes è l’autrice de “La sicurezza degli oggetti” da cui qualche anno fa fu tratto l’omonimo film, mentre Jeffrey Eugenides ha scritto "Middlesex" e “Le vergini suicide”, arrivato sul grande schermo ad opera di Sofia Coppola.

Ma sono dettagli, perché in realtà senza alcun biglietto da visita tutti questi autori rivelano (se le promesse fatte dai racconti vengono mantenute) grande bravura e originalità. I racconti sembrano non seguire un tema comune di alcun genere, ma formano un tutt’uno compatto e hanno quasi sempre in comune l’atmosfera straniante, dissociata, disequilibrata in cui la realtà quotidiana si sposta di qualche grado dal proprio consueto asse e finisce per rivelarsi come un mondo nuovo, una dimensione parallela. La prima storia, quella di un ragazzo le cui 10 dita delle mani formate come chiavi aprono altrettante porte della sua vita (“Il protagonista” di Aimee Bender) ci introduce a questo strano microcosmo in cui si scatenano guerre segrete di cui i cittadini soffrono le conseguenze senza conoscerne le ragioni né lo sviluppo, ci sono persone che scrivono lettere a uomini d’affari fingendosi un cane (“Lettere di Steven, un cane, ad alcuni capitani d’industria” di Dave Eggers) e si racconta di centri commerciali favolosi come le città narrate da Marco Polo (“Centri commerciali invisibili” di Ken Kalfus). Gli stili sono diversissimi tra loro, accanto alla narrazione più classica troviamo diverse storie raccontate senza raccontare, come “Test di comprensione” di Myla Goldberg e il già citato Dave Eggers, esperimenti che dimostrano come ogni cosa, ogni forma di scrittura possa diventare rivelazione, nascondere una storia.

I racconti che mi sono piaciuti di più seguono forse uno stile più classico: “Multiproprietà” di Jeffrey Eugenides, il delirante “Una vera bambola” di A.M. Homes, in cui un adolescente si fidanza con la Barbie di sua sorella (ma non solo, imperdibile), “Dovrebbero dargli un nome” di Matthew Klam in cui una giovanissima coppia affronta i giorni successivi ad un aborto, il bellissimo “Gli uomini primitivi” di Stacey Ritcher, uno dei racconti scritti meglio in assoluto, che vede una professoressa di biologia alle prese con i suoi studenti spacciatori. E potrei continuare, finirei probabilmente per riportare fedelmente l’indice completo del volume.

Terminata la lettura ho subito ordinato un libro di Jonatham Lethem e uno di A.M. Homes, sparando un po’ nel mucchio, perché non avrei veramente saputo quale degli scrittori scegliere. Vedremo se le sensazioni saranno confermate. In ogni caso questo libro vale veramente l’acquisto.

(Autori Vari "Burned Children of America" 2oo1 Minimum Fax -a cura di Marco Cassini e Martina Testa)


martedì 22 settembre 2009

Traghetto (appunti di viaggio 2009)

Frank ha fame, andiamo a cercare da mangiare. Sul nostro ponte c’è un self service. Un primo per lui. Un secondo per me, una bottiglietta d’acqua e mezzo litro di vino, 27 euro. In Sardegna ci mangio per giorni con quella cifra.

Ci addentriamo nel labirinto dei tavoli del salone. Gente che non ha prenotato la cabina accasciata sulle sedie; si sono portati dietro cibo già pronto, leggono o fanno cruciverba, ascoltamo l’mp3 o usano il computer. Col mio vassoio colmo (si fa per dire) di costoso cibo mi sento una duchessa in un campo di profughi. Mentre mangiamo un’odiosa musichetta da ascensore si spande mielosa dagli altoparlanti siti sopra le nostre teste, aumentando l’effetto surrealtà.

A un tavolo poco più in là una coppia sta cercando di fare una foto alla propria bambina. Mi sa che sono veneti, almeno a sentirli parlare. Lei, alta, magra e abbronzata è vestita di nero, il genere di donna con la casa perfetta e i vestiti firmati. La bimba, avrà quattro anni, non è molto carina, ha preso da papà. Piagnucola che ha sete, ma la madre vuole a tutti i costi farle la foto e prima non avrà un bel niente. Alla fine la piccola si arrende. Ma i genitori non sono soddisfatti, vogliono pure che sorrida.

-Dài, un bel sorriso per la mamma. Non così, di più!

Sto pensando che già si potrebbero denunciare per maltrattamento di minore. Comunque la mamma ci mette tanto a fare sta foto che la bambina si rompe e comincia a dondolare sulla sedia. -Ferma!- sibila la donna. Ma la piccola se ne frega e stizzita l’altra spegne la macchina fotografica. Le dice qualcosa, le fa capire che è arrabbiata con lei, la bambina si mette a piangere e cerca il papà. Che però è di relativo conforto.

Giro la testa e m’immagino la ragazzina scappare di casa a 14 anni. Nel frattempo la mamma sta facendo una scenata al marito: -Ecco le risposte che mi dai-gli dice sottovoce per non farsi sentire. Lui, un tipo dai capelli rasati che hanno appena iniziato a ricrescere, stempiato e con gli occhi a palla come una specie di ranocchio triste, sembra imbarazzato. Cerco d’immaginarmi di cosa lo stia incolpando: forse la poca ubbidienza della figlia, forse di non stare abbastanza dalla sua parte, lei donna perfetta e figa suprema. Dea in terra e SUA MOGLIE. Che si è sposata perché usava così, ma è chiaro che lui non è alla sua altezza.

Arriva un’altra coppia, praticamente identica a loro, anche se la donna non è altrettanto bella (è più bassa, ha qualche anno in più ma comunque vestita di ricercato nero) e l’uomo è più grosso, più massiccio e più pelato. Si siedono allo stesso tavolo dei genitori e raccontano la passeggiata sul ponte esterno che hanno fatto. La discussione è finita. La prima donna tira fuori un Nintendo Braintrainer, il marito resta imbambolato mentre gli altri si fanno i fatti loro, come se avesse preso una botta in testa; gli occhi globosi fissano tristemente il vuoto. Non ha avuto neanche il tempo di pensare ad una risposta alle accuse che lei gli ha rivolto. Sotto la sua sedia la bambina si rotola sulla moquette impolverata.


lunedì 21 settembre 2009

I luoghi del leggere 3


Per forza e per amore, molti di noi leggono sui mezzi pubblici. Andando al lavoro o a scuola, in treno, metropolitana, tram, autobus, niente è meglio di un libro per isolarsi e magari dimenticarsi di essere in una carrozza affollata e puzzolente, senza riscaldamento o senza aria condizionata, a seconda delle stagioni.
Uscendo di casa la mattina presto, mi sono resa conto che la sofferenza più grande è l'invasione della proprio piccolo spazio vitale da parte di estranei semi addormentati, sgomitanti per raggiungere un posto a sedere, a volte puzzolenti di sudore già alle 8 di mattina. Leggere non "diffonde un delicato profumo" (per citare le pubblicità di deodoranti per interni) ma permette di estendere un minimo il proprio piccolo territorio o almeno limitare l'invasione. Perchè quello che leggi fa eco nella tua testa e solo nella tua.
E' una difesa dal rumore, dalle chiacchere degli altri, dalla questua incessante, dal disagio e dalla rottura di scatole di stare andando a lavorare così presto la mattina. Una specie di esercizio zen di concentrazione. Può capitare di attaccare discorso a proposito della lettura del vicino che c'incuriosisce al punto di chiederne il titolo o essere la stessa che noi abbiamo già concluso e sulla quale avremmo voglia di scambiare qualche parere(possibile che nessuno dei milioni di lettori di Larsson -ad esempio- non abbia sentito il bisogno di scambiare qualche impressione riguardo la sua trilogia?).
Il ritrovare un estraneo a leggere il nostro stesso libro o uno dello stesso autore (ad esempio King), ci fa sentire meno lontani, scatena una piccola empatia, sbreccia la barriera di esasperazione e diffidenza che ci portiamo dietro. Fratelli di lettura.
Chi va in macchina è certo immune dalle invasioni, ma non può certo leggere mentre guida. A meno di essere veramente incosciente.
Lo scorso anno inaugurai una piccola rubrica sul blog Doppiaazione dal titolo "Bookspotting": il gioco consisteva nel prendere nota dei titoli letti sui mezzi pubblici, per scoprire libri nuovi ma anche fare una specie di punto sui più letti. Infatti, credo che il metrò sia un ottimo metro per misurare le vendite librarie.
Inoltre la tentazione di scoprire cosa leggono i tuoi compagni di carrozza è sempre forte: potrebbe succedere che trovi qualcuno che sta leggendo un libro di Roth e magari a sbirciarne le pagine ti mette voglia di procuratelo. Magari hai trovato uno scrittore che ti piacerà da matti. Il mondo è pieno di libri di cui non conosciamo neanche l'esistenza! E molti viaggiano sulle rotaie del tram e del treno, come leoni e leopardi che passeggiano nella savana cittadina.

lunedì 14 settembre 2009

Are You Experienced: "Eden Express" Mark Vonnegut


Nel 2008 a un anno circa dalla morte del meraviglioso Kurt Vonnegut (sic!) cui si deve il titolo di questo blog, Piemme decise di ripubblicare "Eden Express", scritto dal figlio Mark. In pieno delirio Vonneguttiano ed irresistibilmente attratta dal tema centrale del libro, me lo comprai e lo portai con me a Creta.
Diciamolo subito, Mark Vonnegut non è un figlio d'arte qualunque: ha effettivamente ereditato talento dal padre e nella stesura di questo testo non si è certamente accontentato della prima cosa che scriveva. Dunque se siete amanti l'opera del padre non vi pentirete dell'acquisto.

Detto questo, parliamo di un libro che (come quello di Emmanuelle Laborit di cui ho scritto qualche tempo fa) scaturisce da un'esperienza personale molto forte e come molti di questo genere resta al momento unico.
E' infatti il racconto autobiografico di quando Mark Vonnegut tentò di mettere in piedi una comune agricola in British Columbia negli anni 70' e di come diventò pazzo. Proprio così, pazzo.

Anni '70 dunque: dopo alcune esperienze di lavoro "sociale" Mark decide di cambiare completamente vita, da giovane borghese figlio d'intellettuali a contadino. Insegue il sogno di un'esistenza immerso nella natura, completamente indipendente dal mondo esterno, in armonia con tutto e con tutti. Insieme al suo cane ed alla sua ragazza si unisce ad un gruppo di frikkettoni e inzia a costruire una fattoria in un luogo isolato in cui è impossibile arrivare senza una barca.
All'inizio sembra tutto perfetto: i boschi, il lavoro fisico, l'idea di creare qualcosa con le proprie mani. Ben presto però sorgono i primi problemi, il denaro, i rapporti con gli altri frikkettoni...E poi, all'improvviso, qualcosa si rompe e Mark non è più lo stesso.
Inizia un delirio (che poi si scoprirà essere vera e propria schizofrenia), una discesa nel nulla e nella disperazione senza un'apparente ragione. Costretto a lasciare la comune sarà internato in una clinica per malattie mentali.

La lucidità con cui Vonnegut riporta sulla pagina le sensazioni spaventose della perdita della ragione (e chi ha provato la depressione sa almeno in parte di cosa parliamo) è incredibile, abbiamo un'idea assolutamente realistica di quello che ha provato, del suo progressivo distacco dalla realtà, dell'orrore di non essere più sè stesso senza conoscerne il motivo. E' sorprendente come sia riuscito a ricordare così chiaramente sensazioni ed avvenimenti del tutto "immaginari", le trasformazioni delle visioni, i soliloqui allucinanti. Ci scivola dentro come si diventa allegri o tristi ascoltando una canzone, così, quasi senza accorgersene e questo spiazza e inquieta.

E' un racconto sincero e pauroso, anche se in realtà è pure una lettura comica, sognante e vuole esplicitamente dare speranza a coloro che come l'autore si sono trovati catapultati in un attimo in un mondo sconosciuto dentro di loro. Mark è guarito dalla schizofrenia, e nelle pagine finali troviamo una lettera scritta anni dopo ad una ragazza col suo stesso problema, in cui l'incoraggia e dà consigli per affrontare la malattia.
E' inoltre un documento sincero delle disillusioni di coloro che hanno sognato di cambiare il mondo con l'amore. A questo proposito sono indicativi i primi capitoli, dedicati ai rapporti con gli altri componenti della comune, che rivelano una serie di meccanismi sempre presenti nei rapporti umani, anche in quei gruppi che dichiarano la volontà di essere diversi dal resto della società.

Se avete abbastanza fegato, ci sono molti motivi per leggere "Eden Express". Mark Vonnegut ha l'onestà di parlare senza esibizionismi dell'avvenimento forse più drammatico della propria vicenda personale, una capacità di esporsi in tutta la propria debolezza umana di cui non smetto di essere grata a lui e a suo padre.
La malattia mentale è qualcosa che spaventa perchè è incontrollabile, e in apparenza non c'è modo di prevenirla. Non sarà Mark a rassicurarvi o a convincervi del contrario. Non è un libro per struzzi.

("Eden Express" Mark Vonnegut, Piemme 2008)


martedì 8 settembre 2009

Fuori Tempo- "Non è un paese per vecchi", Cormac McCarthy


Bisognerà ringraziare i fratelli Cohen per aver rilanciato col loro film la fama di Cormac McCarthy, senza di loro probabilmente non l’avrei mai scoperto e sarebbe stato un peccato. “Non è un paese per vecchi” è molto più di un semplice thriller, contiene in sé elementi assoluti di Bene e Male.

L’entità narrante principale è lo sceriffo Bell, poliziotto di mezza età, reduce di ben due guerre e testimone di una vicenda che parte da un conflitto a fuoco tra trafficanti di droga nel deserto Texano. Tutti gli uomini coinvolti finiscono morti o gravemente feriti. Sul posto rimangono i soldi e la droga. Il primo ad arrivare dopo la sparatoria è Llewlyn Moss. E’ un tipo tranquillo, un uomo fondamentalmente onesto. E’ la pecorella che si smarrisce. Mai si sarebbe immaginato di trovare due milioni di dollari durante una battuta di caccia. Ma quando succede, se li prende. E ovviamente iniziano i guai: ad inseguirlo ci sono i proprietari della droga, i proprietari del denaro e soprattutto ANTON CHIGUR. Angelo sterminatore, demone in visita in Texas, essere mitologico che obbedisce ad una morale oscura (“La gran parte della gente non crede che possa esistere una persona del genere. (…) Come si fa a sconfiggere qualcosa di cui si rifiuta di ammettere l’esistenza?”) Chigur è inarrestabile, spazza via qualunque ostacolo che si frapponga fra sé ed il suo obiettivo e non fa patti, non ha pietà, non fa concessioni. Al massimo un lancio di moneta. Non ha apparentemente un passato tragico (che potrebbe spiegare la sua spietatezza) e nemmeno si pensa nel futuro, vive unicamente il presente. E’ così matto, così limpido nella sua logica folle, così privo di sentimenti positivi o negativi che non si può evitare di restarne affascinati.

Bell - “l’uomo retto”, incorruttibile e saggio- è impotente (e incapace, purtroppo) di fronte a questa violenza che viene da non si sa dove, a questi criminali che poco somigliano a quelli che è abituato a sbattere in cella e a cui la moglie prepara da mangiare. Non riesce a fermare il massacro di Chigur e dei messicani né a salvare il concittadino Moss; la legge non è sufficiente a far prevalere il bene, tutte le sue certezze s'infrangono di fronte a questa nuova consapevolezza ed egli finisce con l’arrendersi, comprendendo di non essere più in grado di difendere la sua contea dal buio e dalla follia.

Bell e Chigur sono i personaggi meglio delineati del romanzo, per motivi opposti. Il primo racconta lungamente di sé e per la fine del libro sappiamo quasi tutto di lui. Al contrario, del secondo non sappiamo nulla e lo conosciamo quasi unicamente attraverso le sue azioni.

Cormac McCarthy saluta con malinconia un mondo più semplice e comprensibile che scompare e si addentra oltre il confine in una terra nuova e spaventosa come nessuno si poteva immaginare e in cui neanche Dio ci può salvare.

Il film dei Fratelli Cohen rispetta completamente l’asciutta narrazione di McCarthy, tanto minimale da dare grande libertà d’interpretazione, soprattutto visiva. In apparenza non aggiungono niente ai contenuti del romanzo ma la loro opera oltre a mettere in primo piano la figura di Chigur (pur non raccontandone niente di più dello scrittore) fa emergere sottilmente il lato grottesco della storia e dei personaggi, senza comunque ridicolizzarne la durezza e la tragicità.

Sia il libro che il film sono consigliati, leggete o guardate nell’ordine preferito, non rimarrete comunque delusi.

(Cormac McCarthy "Non è un paese per vecchi" Einaudi, 2005)

domenica 6 settembre 2009

Tutti gli anni lo stesso giorno- Racconto

Pubblico un racconto scritto qualche tempo fa. In realtà ne esistono due versioni. Ho optato per questa perchè mi pareva più compiuta. Nulla esclude che in futuro pubblichi anche l'altra, chi lo sa.
Se avete osservazioni sono le benvenute, in forma di commenti o scrivendo a gemellearotelle@gmail.com
Enjoy!

Tutti gli anni lo stesso giorno

“Hey, auguri, buon compleanno!”

Lui si voltò, sorrise timidamente e ringraziò il collega. Ogni anno qualcuno se ne ricordava in ufficio, non sempre la stessa persona. Benché da una parte gli facesse piacere, dall’altra non poteva impedirsi di provare fastidio. E non certo per la bevuta che avrebbe offerto all’ora di pranzo. La sentiva come un’attenzione non richiesta, un’invasione: in fondo se avesse voluto che uno di loro se ne ricordasse avrebbe portato da bere e da mangiare o l’avrebbe detto.

Conoscere la data di nascita di qualcuno equivale a conoscere un mucchio di cose: si può capire il segno zodiacale, dedurre quando la persona in questione ha frequentato le scuole superiori, si può addirittura risalire ai gruppi musicali preferiti durante l’adolescenza. Sì, stupidaggini, ma chi lo sa, magari gli oroscopi hanno ragione e le preferenze musicali possono rivelare cose inaspettate di una persona, cose che neanche lei o lui sa. Forse era un po’ paranoico. In fondo, a chi poteva interessare conoscere queste cose di lui, al di fuori di lui stesso?

A pranzo non mangiò molto, giusto un panino per tenere buona la gastrite. Mentre i colleghi chiacchieravano lui si osservava in una vetrata alle loro spalle cercando di decidere se stava invecchiando bene o no. Praticamente non aveva rughe. Da dietro il tavolo la pancetta non si vedeva e guardandolo in faccia nemmeno il diradamento dei capelli sul retro della testa si notava. Non fossero stati quasi completamente grigi avrebbe potuto essere soddisfatto. Cercò di scacciare il pensiero del decadimento fisico rientrando nella conversazione. In due ore avrebbe avuto di nuovo fame, ma sapeva che quella sera avrebbero festeggiato a casa dei suoi genitori e la madre era già sul piede di guerra con pentole e padelle. Ogni compleanno era una specie di tourneè: festeggiava dai suoi, festeggiava dai suoceri e con gli amici. In uno, al massimo due giorni accumulava materiale sufficiente per mettere fuori posto lo stomaco per qualche settimana.

Staccò con un’ora d’anticipo e si diresse verso casa. A quell’ora c’era ancora poco traffico così ci mise solo venti minuti ad arrivare, invece dei soliti quaranta. Quando entrò dalla porta, il figlio gli venne incontro sventolando un disegno che lo ritraeva, gigantesco sopra casette minuscole da cui usciva del fumo azzurro. Il cielo era una specie di soffitto blu spaccato dai raggi gialli di un sole sorridente. Lo abbracciò e appese il disegno sulla bacheca di sughero in cucina, come faceva tutti gli anni.

Si fece una doccia: rimase sotto l’acqua molto più del solito. Si fissava i piedi e cercava di annullarsi completamente nella sensazione del getto sulla pelle. Perse per un poco la cognizione del tempo. Quando uscì dal bagno la moglie lo aspettava seduta sul loro letto col piccolo ed un regalo avvolto in una carta dorata. Era stata dal parrucchiere, si era anche fatta fare le unghie, che spiccavano come artigli insanguinati sul copriletto color crema.

-L’ha scelto per te- disse indicando il bambino con un movimento della testa. Lui aprì il pacchetto, conteneva una maglia della sua squadra di calcio preferita. Dietro c’erano stampati il suo nome e la sua età. -Il numero è stata una mia idea- disse la moglie- così ti ricorderai quando l’hai ricevuta. -Mettila subito!- strillò il bambino –per la festa!

Guidava con un senso di soddisfazione: in altre circostanze non gli sarebbe stato concesso di uscire indossando una maglia da calciatore a strisce rosse e verdi, magari si sarebbe lasciato convincere da lei a mettere una camicia e una giacca, ma siccome si trattava di un regalo del piccolo, non aveva avuto in coraggio di opporsi. Era immensamente grato di potersi presentare così alla famiglia, perché neanche loro avrebbero osato criticarlo.

A casa dei suoi genitori erano già arrivati tutti. Quando suonò il campanello mamma, papà, fratelli e cognate gli si precipitarono addosso coprendolo di auguri, strette di mano e baci sulle guance.

Con alcuni di loro non andava d’accordo, anzi. C’erano state grosse discussioni specialmente con i fratelli in passato, spalleggiati dalle mogli. Ma sembrava che i dissapori e le polemiche svanissero per le feste comandate. Non avevano mai litigato a Natale, a Capodanno e poteva aspettarsi che seguendo il copione anche stasera tutto sarebbe filato liscio. Ci si adattava, anche se gli sembrava una finzione, pur di non rovinare tutto il lavoro della madre.

Nessuno accennò alla sua maglia, se non per complimentarsi col bambino per la scelta. Dovevano essere stati avvertiti durante uno di quei giri di telefonate che si fanno quando si avvicina il compleanno di qualcuno e le persone a te più vicine, che più ti dovrebbero conoscere, non riescono a mettere insieme un’idea originale di cosa prenderti.

Aprì altri regali. Due libri, una camicia, una bottiglia di liquore, un paio di cd. Qualcosa corrispondeva ai suoi gusti, però notò come fossero tutti espressione degli interessi dei festeggianti, più che del festeggiato. Se li avesse trovati sul tavolo, invece che averli ricevuti in mano, aprendoli avrebbe capito comunque da chi provenissero. Mettere un pezzo di noi nei regali per gli altri è quasi inevitabile, pensò. Forse è il suo bello o forse è un’altra marcatura del territorio.

La cena fu abbondante, come aveva previsto: antipasti, pasta al forno, peperonata, arrosto e un florilegio di contorni di verdura. I suoi piatti preferiti. Il giorno dopo ci sarebbe stato un bis, grazie agli avanzi che quella sera sarebbero stati equamente divisi tra tutti i fratelli.

Poi arrivò la torta. In mezzo ad una selva di candeline ne ardeva una a forma di numero: 41. “41” pensò soffiando sulle candeline come quando era piccolo “Sono 41”.

Verso mezzanotte salirono in macchina, carichi dei regali e degli involti di carta stagnola. Il bambino fu adagiato nel suo seggiolino, si era addormentato da almeno un’ora.

Mentre lui parcheggiava in garage, la moglie lo portò in casa e lo mise a letto. Poi andò in bagno e cominciò a prepararsi per andare a dormire. Quando arrivò lo aspettava sotto le coperte, semi addormentata. Era così stanco che si lavò a malapena i denti. Mancavano poche ore alla sveglia. Si sedette sul coperchio del water e restò un po’ così, cercando di ricordare quand’era stata l’ultima volta che un compleanno era stato qualcosa di divertente, emozionante, quand’era stata l’ultima vera sorpresa della sua vita, quando aveva cominciato a diventare prevedibile giorno dopo giorno, minuto dopo minuto. Si sentiva confuso. Non aveva realizzato la sua nuova età finchè non l’aveva vista sulla torta di compleanno, come se non si sentisse in grado di crederla o di ammetterla sulla sua persona. Spegnere le candeline era stato il momento in cui tutto si era avverato: adesso non poteva farci più niente.

Si alzò e prima di andare in camera si fissò un istante alla luce chiara e tagliente dello specchio sopra il lavandino cercando di non pensare a niente. S’infilò nel letto e spense la luce sul comodino. Fissò il buio di fronte a sé: le tapparelle erano abbassate, neanche i lampioni in strada erano accesi. Forse c’era un guasto. La stanza era completamente buia. Pensò subito al bambino: meno male che aveva la sua piccola luce di sicurezza accesa vicino al letto. Lui però, nella stanza accanto, non vedeva niente.

La moglie si mise a russare lievemente, lui girò la testa, ma non riusciva a vedere nemmeno lei. Allora cercò d’immaginarsi in mezzo a quell’oscurità, inghiottito, annullato, senza una faccia, senza un corpo, senza una voce, solo un respiro e nessuno a vederlo, a cercarlo. S’immaginò di non ricomparire dall’oscurità il mattino dopo, lasciare solo le coperte vuote e nessun ricordo, non dire buongiorno e non ricominciare daccapo fino al prossimo compleanno. Si addormentò, felice.

L.S.P. Giugno 2009

lunedì 31 agosto 2009

Hard to find: "The Ice At The Bottom Of The World" Mark Richards




Se cerchi Mark Richard nei siti italiani di vendita di libri, saltano fuori testi di giardinaggio e per lo studio della lingua inglese. Anche consultando un sito Americano devi faticare, però lo trovi. Effettivamente non è che abbia scritto molta narrativa (due raccolte di racconti e un romanzo); adesso poi, si sta dedicando alla scrittura di sceneggiature cinematografiche. Ma se Chuck Palahniuk lo cita in un suo articolo come una specie di maestro, cominci a pensare che non si tratti di un Mr. Nessuno.

L’impressione che si ha dopo qualche ricerca è che Mark Richard sia un specie di guru della letteratura americana contemporanea, conosciuto soprattutto da scrittori ed intellettuali, carismatico e capace d’influenzare altri scrittori, ma relativamente poco noto al grande pubblico.

Solo impressioni. Ma se fosse vero ci sarebbe da chiedersi perché, dato che i protagonisti dei suoi racconti vivono per la quasi totalità ai margini dei margini, nelle periferie di piccole città del sud degli Stati Uniti, più poveri dei neri che vi abitano, costretti a pagarsi l’alloggio con lavori di manutenzione per il padrone di casa. Mangiano quello che capita (un pranzo al fast food è accolto come da noi una cena al Savini), sono quasi sempre persone di poca istruzione e spesso bambini, esposti alla violenza e alla sfortuna. Raccontano la loro storia con lunghi monologhi e la loro lingua è quasi dialettale, con periodi infiniti che se vuoi capirli devi immaginarteli in bocca a qualcuno perché altrimenti resti a chiederti che cavolo significa stà frase? Attraverso questa lingua così complessa e realistica la vita viene rappresentata in modo misterioso, trasognato, come nei racconti dei bambini, che non comprendono tutto quello che vedono ma lo riportano fedelmente rendendolo con la loro ingenuità ancora più agghiacciante, divertente o triste.

E’ il caso di racconti come “Strays” (in cui due fratelli sono affidati alle cure di un certo "zio Trash" mentre il padre cerca di recuperare la madre scappata di casa) o “This is us, excellent” i cui protagonisti sono ragazzini maltrattati che riportano quanto gli accade così come lo percepiscono, senza rilevarne il lato drammatico o perlomeno il lato più drammatico, perché così è la loro normalità. Dalla comicità di “Happiness in the garden of variety”, all’infinita tristezza di “Her favorite story”, “The ice at the bottom of the world”, “On the rope”, Richard dimostra una grande sensibilità e una notevole abilità di narratore e non sorprende che sia stato accostato come genere a Mark Twain.

Un piccolo libro con un grande peso specifico, che francamente trovo strano (per non dire criminale) nessuno si sia deciso ancora a tradurre.

(Mark Richard “The Ice at the bottom of the world” 1991, Anchor Books. Reperibile su Amazon Uk e Amazon.com, oppure provate ad ordinarlo presso una libreria fornita di testi in lingua originale)

domenica 23 agosto 2009

I luoghi del leggere 2




Altra abitudine di casa mia: mio padre è da sempre il primo ad alzarsi la mattina e da sempre mentre fa colazione, legge. Per un uomo maritato con due figlie gemelle, che lavorava dalle 8.30 alle 18,19, 20 di sera, gli spazi di autonomia e isolamento erano importanti quanto esigui. Quella era ed è la sua mezz'ora di pace, il suo bastione contro il logorìo della vita moderna, sette giorni su sette. Durante il week end questo tempo si dilatava a un'ora, spingendosi fino al nostro arrivo in cucina. Poi s'avviava verso il bagno, libero di accendere la radio e far scorrere l'acqua senza svegliare la moglie. Così mi capitava di guardarlo leggere i suoi libri di Follet o di storia della seconda guerra mondiale. Ero curiosa di chiedergli cosa raccontavano quei volumi ma sapevo che in quel momento era come in trance e non potevo disturbarlo. Comunque, le sue risposte minimali non avrebbero aggiunto molto a quello che già apprendevo leggendo la sovracopertina.
Di recente ho iniziato ad imitarlo. Quando ricomincerà la scuola dovrò tornare a lavorare e alzarmi alle sei, sarò impegnata più a coordinare i movimenti piuttosto che a leggere...Il che porta a chiedermi quali siano le letture più adatte all'orario mattutino: Chuck Palahniuk o Kurt Vonnegut per un risveglio a botta, Martin Millar per qualcosa di più delicato tendente al buon umore, Carver per un quieto e malinconico discendere nelle faccende quotidiane. Banana Yoshimoto per una sensazione di leggerezza anche se non necessariamente di allegria...Lansdale, dipende dal libro...E se ogni libro avesse un suo orario ideale di lettura? Libri da alba, da mezzogiorno, da tramonto, da notte...bisognerà che ci pensi.

venerdì 21 agosto 2009

Per Fernanda


Sono stata incerta se scrivere qualcosa su Fernanda Pivano. Detesto il clamore e l'effimero interesse che si crea alla morte di un personaggio pubblico. Improvvisamente tutti sanno chi è e tutti ne parlano come di un santo/santa. Odio il silenzio che segue.
Io stessa ammetto di conoscerla davvero poco, di connetterla mentalmente con la beat generation, Jack Kerouac, e poco altro.
Però lasciarla andare così, senza un saluto mi sembrava veramente brutto, e ingrato. Se oggi ho in mano non solo i libri che lei promosse e tradusse, ma anche quelli di Lansdale, Vonnegut, McCarthy e di tanti grandi autori Americani, se sono tradotti in modo decente, beh, lo devo anche a lei. In un paese refrattario alle novità culturali come questo si rischiava di rimanere all'oscuro di tanta letteratura, di tanto ingegno e bellezza. Ma voi riuscite ad immaginarlo? Io sì, perciò GRAZIE! E buon viaggio.

giovedì 20 agosto 2009

Di cosa parliamo quando parliamo di un bel libro?



Ci sono libri che pur non essendo scritti in modo impeccabile, restano nel cuore e sono oggettivamente capaci di catturarci e restare come tra i più belli che abbiamo letto. Io mi ricordo due di questi libri: il primo è "Il grido del gabbiano" della francese Emmanuelle Laborit, il secondo è "Lo sfidante. Million Dollar Baby" di F.X. Toole.
Nonostante stiano un pò agli antipodi hanno in realtà tante cose in comune, ad esempio una forte connotazione autobiografica: la prima infatti racconta la sua storia di bambina nata sorda profonda e cresciuta in una famiglia di udenti, le sue battaglie per diventare indipendente e per trovare la propria strada nella vita. Toole, un pugile semi professionista avvicinatosi a questo sport in età non più giovanissima, ha invece infuso nei suoi racconti questa esperienza.
Altra coincidenza, più frivola, sta nel fatto che entrambe i libri sono stati toccati dal cinema: Emmanuelle Laborit è attrice (Ha interpretato Marianna Ucrìa in un film tratto dal romanzo di Dacia Maraini) e ora lavora soprattutto in teatro, mentre il libro di Toole è stato l'ispiratore dello splendido "Million Dollar Baby" diretto da Clint Eastwood.
Infine, entrambe gli autori nonostante le rispettive esperienze -non tra le più facili sebbene tanto diverse- non cadono mai nel patetismo e non cercano l'approvazione compatita del pubblico.
Sono opere di due "non scrittori" , persone che probabilmente non si erano mai sognate di scrivere prima di mettersi a farlo, con fatica che possiamo solo immaginare (scrivere è fatica) e che ogni tanto hanno fatto storcere il mio nasino snob, quando leggevo una frase un pò troppo poco lirica o con una costruzione un pò brutta. Eppure credo che gli autori siano arrivati a comunicare in modo profondo la loro passione ed il loro punto di vista.
Si tratta di narrazioni lineari, senza costruzioni complesse o fantasiose invenzioni linguistiche. Non ne hanno bisogno, perchè alla fine è proprio questa la loro forza e non hanno altro scopo che raccontare. Sia Toole che la Laborit quando si sono messi alla macchina da scrivere volevano solo parlare di sè stessi, esporsi, cercare di far conoscere la propria storia.
Ricordo che mentre leggevo "Il grido del gabbiano" riuscivo perfettamente ad immaginare come possa essere vivere in un mondo incomprensibile agli altri, un mondo in cui la comunicazione è totalmente diversa da come l'intendiamo noi udenti. E le pagine di F.X.Toole sono esemplari nel guidarti dentro un mondo sconosciuto ai più come quello della boxe, con i suoi riti, le sue regole ferree, i suoi personaggi.
Questi due libri sono buoni così, anche se dovessero restare unici, con le loro imperfezioni, perchè anche quelle imperfezioni sono parte della loro bellezza e li rendono vivi.

(Emmanuelle Laborit "Il grido del gabbiano" Rizzoli 1995 - F.X. Toole "Lo sfidante - Million Dollar Baby" Garzanti 2001)

martedì 18 agosto 2009

Tornate presto! "Picnic sul ciglio della strada" A. e B. Strugatzki


Non sono un’esperta di fantascienza, però mi piace. Soprattutto quella appartenente alla corrente “umanista” -vale a dire Bradbury,Vonnegut, Wells, Orwell, eccetera- che ha come fine non tanto l’esplorazione del futuro, della tecnologia o dello spazio, quanto il loro effetto sulla società e sull’uomo o la critica al mondo presente. Sicuramente molti autori Russi appartengono a questa corrente: Bulgakov ne è esempio lampante con “Le uova fatali” e “Cuore di cane”, in cui la trama prende spunto da scoperte ed esperimenti scientifici, ma è solo una metafora magica della realtà.

Anche nel romanzo dei fratelli Strugatzki c’è molto più di una bella storia. Non a caso ha ispirato il film “Stalker” di Tarkovsky, anche se il regista ne ha conservato solo l’ossatura e sviluppato in modo autonomo (soprattutto visivamente) gli argomenti che gli stavano a cuore.

Dunque, gli alieni esistono. Si sa perché sono scesi in sei punti diversi del pianeta, tra cui la città industriale di Marmont. Sono venuti e se ne sono andati. Non ci sono stati contatti diretti tra loro e gli umani, ma la loro visita ha lasciato dei segni: innanzitutto rifiuti, oggetti straordinari e misteriosi per gli umani, frutto di una tecnologia avanzatissima. Di questo vanno in caccia gli stalker, uomini desiderosi di buoni guadagni, disposti a rischiare la vita entrando nella “Zona”, il luogo mitico della “Visita”, dove si trovano pericoli sconosciuti ed incomprensibili a cui vengono dati nomi fantasiosi come “tagliole” o “gelatina di strega”.

Redrich Schouart è uno stalker, uno dei migliori. E’ un outsider, un anarchico, refrattario all’autorità, individualista, vuole sempre fare a modo suo. La sua non è una vita facile, anche al di fuori della Zona, perseguitato dalla polizia, sposato e con una figlia da mantenere. Tutte le persone che conosce sono in qualche modo legate alla Zona, che siano altri stalker, o scienziati, o militari. Tutti vogliono quello che si trova là, per denaro e potere e Redrich è il loro mezzo per averli. Pensa di essere libero, ma è solo un mezzo per i fini di altri e senza saperlo s’è messo al servizio del potere più becero. La vita di Redrich è una lenta presa di coscienza del proprio posto nella società, della propria vulnerabilità, della propria prigionia all’interno di un sistema.

Già così le implicazioni politiche sono piuttosto chiare, ma è solo la punta dell’iceberg: i fratelli Strugatzki arrivano molto più a fondo, cercando di sondare i motivi profondi dell’esistenza, ciò che muove l’uomo, ciò che lo porta a voler conoscere il motivo delle cose, perfino il suo rapporto con la divinità. E così fanno soprattutto domande, domande, tanto che anche il romanzo si chiude con una domanda, senza salvazione e senza risoluzione.

Non pensate però che si tratti di un libro barboso o cervellotico, queste sono considerazioni che arrivano dopo aver terminato la lettura. “Pic nic sul ciglio della strada” è un romanzo appassionante, con una vera storia e diversi registri narrativi; Redrich è un personaggio che s’impara ad amare e a sentire vicino, con il suo cinismo e i suoi drammi personali, affine in qualche modo al Montag di “Fahrenheit 451”. E poi c’è la Zona, forse la vera protagonista. C’è sempre lei al fondo di ogni conversazione, anche se non viene nominata: è l’elemento catalizzatore di ogni personaggio, più di un luogo, è una presenza, come una di quelle case stregate dei romanzi d’orrore. Attira e terrorizza sembra essere la vera padrona del gioco, silenziosa e oscura. Come l’anima dell’uomo.

("Picnic sul ciglio della strada" Arkadi e Boris Strugatzki, 2002 Marcos Y Marcos)

venerdì 14 agosto 2009

Merenda a sorpresa: "Abbiamo sempre vissuto nel castello" Shirley Jackson





Mary Katherine Blackwood, la sua bellissima sorella e il vecchio zio Julian vivono nella grande casa di famiglia in cima ad una collina circondata da campi e boschi. Le loro giornate passano allegramente tra passeggiate, lavori nell’orto e in cucina. La casa è grande e bella, frutto del contributo di generazioni di Blackwood; fino a 6 anni fa alloggiava due rami della famiglia. Fino a quando non sono tutti morti avvelenati.

Una parola è troppo e due sono poche (come diceva Peppino De Filippo) per parlare di Shirley Jackson, una scrittrice che pur non prolificissima (ricorreva l'8 agosto l'anniversario della sua morte a soli 48 anni) ha lasciato alcuni dei più straordinari racconti e romanzi horror mai scritti, così particolare, così speciale che il termine stesso "horror", pure accoppiato con “mistero” non riesce a dare l’idea di ciò che vi aspetta sotto la copertina. Non ci sono esseri sovrannaturali né possessioni diaboliche (non qui almeno, né nella bellissima raccolta “Demoni Amanti”), non ci sono manifestazioni occulte. Eppure ce n’è da far tremare i polsi.

Dapprima Shirley vi ipnotizzerà, vi attirerà verso la proprietà dei Blackwood e ve la farà amare: guardate Constance cucinare, ascoltate lo zio Julian parlare del libro che sta scrivendo, giocate col gatto. Seguite Mary Katherine nei luoghi dove ama nascondersi. Poi, pian piano, scivolerete. Non ve ne accorgerete subito, ma succederà e cambiando la luce, ciò che prima vi aveva affascinato lo vedrete in modo diverso e terrificante.

I muri di casa Blackwood si chiuderanno lentamente su di voi, fino a che sarete sicuri di non avere più scampo. Il male ci circonda, è dentro di noi, tutti noi. E’ ineludibile e aspetta solo il momento per rivelarsi e acquisire un’identità, per essere un bambino, avere la faccia di un uomo o di una donna o di tutti e tre, tutti insieme. Emerge lentamente, ma non c’è proprio nulla che si possa fare per fermarlo.

Come scorre un ruscello, così succedono le cose in questo libro, naturalmente, senza costruzioni letterarie complesse, avvolgendo lentamente il lettore in parole che a ben guardare non cambiano, vengono ripetute ossessivamente dall’inizio alla fine, ma chissà come non ci fanno più le stessa impressione quando arriviamo in fondo.

E’ una magia, un sortilegio che questa scrittrice impone sui suoi libri, qualcosa di sottile ed invincibile, che resta dentro.

(Shirley Jackson “Abbiamo sempre vissuto nel castello” 2009 Adelphi –grazie per la riedizione dei libri di questa scrittrice-)