giovedì 6 agosto 2015

Non c'è ipotassi che tenga

Da qualche anno lavoro nella scuola superiore con ragazzi disabili. La loro condizione li porta ad avere difficoltà di comunicazione immediata e di sviluppo di una Lingua Prima ben strutturata. Per questo motivo quando usano l'italiano scritto inizialmente si lavora di sottrazione, per rendere chiari i concetti. Una volta consolidate le strutture di base, se il tempo scolastico lo permette si introducono elementi di maggiore complessità e si arricchisce il lessico. Questi studenti hanno spesso la percezione che per scrivere bene si debbano usare tante parole: soggetto, verbo, complemento oggetto non bastano, un italiano corretto prevede frasi lunghe e complesse. Così distribuiscono articoli, preposizioni, congiunzioni con gioiosa abbondanza, ma senza senso.

A proposito degli esami di maturità, come ogni anno si trovano in rete una serie di stupidari che raccolgono gli strafalcioni più eclatanti degli studenti. Moltissimi errori di comprensione ("La teoria dell'ostetrica" di Verga, "L'aperitivo categorico" di Kant...) mettono il dubbio che i professori in classe si mangino le parole o non sempre spieghino correttamente le definizioni, in alternativa che alcuni redattori siano molto creativi. Altri riguardano l'esposizione di concetti in parte esatti, che rovinano a causa dell'iconoclastia sintattica e dell'uso casuale delle parole funzionali -in particolare le preposizioni. Anche gli studenti migliori, abbagliati dal miraggio di impressionare i commissari con periodi articolatissimi, si perdono in un labirinto di subordinate. Nella mia classe uno dei ragazzi più in gamba, attento, impegnato, forte lettore, s'è beccato l'insufficienza nella prima prova.

Sono stata ad una lezione di scrittura tenuta da un noto editor di una notissima casa editrice. Tema era la scrittura paratattica, quella cioè che privilegia periodi brevi, frasi principali, congiunzioni, e non utilizza subordinate. L'esempio più immediato in letteratura è dato dagli scrittori americani. Al contrario, la scrittura ipotattica è tipica della lingua italiana, ricca di frasi incassate, virgole, "poiché", verbi al gerundio e così via. La spiegazione era un po' tecnica ma interessante e ha sortito l'effetto di risvegliare l'amor patrio nei cuori degli aspiranti letterati: più d'uno infatti ha tuonato contro il misero stile paratattico, inadatto -a loro parere- a indagare nel profondo, a raggiungere una completezza espressiva che invece la nostrana letteratura ipotattica possiede. Eccoli, i poveri maturandi di qualche anno fa, cresciuti e colpiti in testa dalla Musa. Sono ancora ossessionati dall'idea di articolare frasi immaginifiche che montano come la panna, impazziscono come la maionese e raggiungono la completezza espressiva totale. Animati dal pregiudizio verso gli scrittori americani dimenticano che la struttura paratattica è utilizzata in abbondanza nella letteratura contemporanea di tutto il vecchio continente, basti ricordare “Lo straniero” di Camus e l'opera della grande Agotha Kristof, che straripano di completezza espressiva. Inutile dire che (purtroppo per noi) tale spocchia si riflette direttamente nei loro racconti. Ma tant'è, per molti italiani una scrittura comprensibile e in apparenza semplice è sinonimo di superficialità e poca cultura letteraria.

Ma i corsi di scrittura sono solo il punto d'arrivo dell'enorme equivoco che si perpetua a partire dalla scuola, alimentato dalla critica, da intellettuali e scrittori italiani. L'arte deve essere complicata, inafferrabile, a maggior ragione la letteratura. In gran parte il motivo per il quale molti non leggono è questo: perché si annoiano! E' difficile appassionarsi a volumi colmi di iperbolici fraseggi e poveri di sostanza. Con i nostri programmi scolastici, quando uno studente ha finito le superiori è già rovinato. Se alle elementari e alle medie gli hanno fatto leggere Rodari e Calvino, le tegole di Manzoni, D'Annunzio e Moravia lo stordiscono. Quando si risveglia dopo il diploma, ha subìto un tale trauma che quando vede un libro è invaso da un orrore irrazionale del quale -sempre a causa del trauma- non ricorda il motivo. Non sto dicendo che si dovrebbero per forza eliminare questi (e altri) autori dai programmi, anche se mi piacerebbe. Solo dargli meno spazio, affiancargli i colleghi stranieri, ampliare la prospettiva letteraria. All'inizio del Novecento gli intellettuali italiani discutevano se fosse il caso di aprirsi alle influenze letterarie straniere o restare arroccati nel proprio palazzo di supponenza: l'Italia, paese della poesia classica, patria di Dante, non poteva contaminarsi con la la plebea letteratura straniera. Non abbracciare la novità fu un grave errore, che relegò la produzione nazionale -già in ritardo sia in termini di espressione linguistica, sia rispetto al genere del romanzo- nell'angolo degli amatori, quasi sconosciuta all'estero, con l'eccezione di Dante, che però non è un romanziere. Sì, D'annunzio riuscì forse a creare un po' d'interesse intorno a sé, ma dovette faticare non poco facendo altro (frequentare salotti, corteggiare signore, pilotare aeroplani), diventando precursore dei tanti che vendono libri non in virtù della validità di questi ultimi, ma della celebrità acquisita dal loro (sedicente) autore in qualche programma televisivo. Se chiedete a uno straniero chi è il primo autore italiano che gli viene in mente probabilmente risponderà Calvino, forse Ammaniti, forse addirittura Faletti.
Alla fine la rivoluzione proletaria, almeno in letteratura è riuscita: la scrittura “alta” dei baroni e dei tromboni italiani, la lingua fiorita e vuota, farcita di ipotatticismi è stata vinta dal romanzo plebeo che racconta in modo credibile (e comprensibile) storie credibili di gente credibile e certamente più interessante di qualche bamboccio viziato di inizio Novecento. Forse al Ministero della Pubblica Istruzione ne sono fin troppo consapevoli, sanno benissimo che se Verga dovesse essere affiancato nel programma da Zola probabilmente evaporerebbe, e se si dovessero studiare “I fiori del male”di Baudelaire o le “Illuminazioni” di Rimbaud con la stessa devozione con cui si sciorinano le “Laudi” di D'annunzio o le “Allegrie di naufragi” di Ungaretti, difficilmente i secondi reggerebbero il confronto. Meglio nascondere le prove della miopia intellettuale italiana e continuare a far credere che abbiamo i migliori poeti e romanzieri, troppo difficili ed espressivamente complessi per essere compresi da chiunque, compresi i nostri indifesi studenti.
"Untangling your brain"

E così torniamo in classe, agli allievi, che indipendentemente dalle caratteristiche individuali sono convinti che per prendere bei voti si debba scrivere difficile, non importa cosa, la forma è tutto. Per scrivere invece serve qualcosa da dire, non basta essere bravi a infilare parole su parole. E se si sa cosa raccontare, beh, non bisogna mai dimenticare che scriviamo per un lettore e che ci dobbiamo far capire. Ma se i programmi e i libri di testo prevedono opere dal linguaggio eccessivamente complesso e povere di reali contenuti, gli studenti -che a volte hanno solo la scuola come fonte di stimoli letterari- non hanno scelta. Avvertono il disagio, hanno difficoltà a studiare e scrivono componimenti inconcludenti, ma non sanno perché.
Potendo accedere a un manuale di storia o letteratura ve ne renderete conto: spesso non si capisce cos'è successo, sintetizzare i fatti è difficile, riassumere i concetti fondamentali è un bel casino, anche per un adulto. (Per inciso, chi si occupa di libri scolastici delle medie si lamenta di un livello linguistico sempre più basso richiesto dagli editori. Alle superiori improvvisamente si deve diventare fini letterati, analizzare con arguzia poemi e accadimenti storici.)
Cosa ce ne facciamo di libri che non capiamo? Sarebbe meglio forse, per strutturare un pensiero chiaro e una lingua altrettanto chiara in cui esprimersi (e magari divertirsi un po' di più), leggere Mark Twain, Joseph Conrad, Emile Zola...la scelta è infinita. Qual è lo scopo di arrovellare i neuroni su complesse descrizioni o l'italiano dialettale dei letterati nostrani quando non si hanno gli strumenti per comprenderli (pochissimi li hanno avuti da adolescenti), mentre i loro contemporanei paratattici stranieri riuscivano a esprimere meglio e più chiaramente la stessa idea letteraria? I vantaggi sarebbero indubbi: studenti meno confusi, temi meno sconclusionati, racconti meno asfissianti. E di conseguenza commissari di maturità e docenti dei corsi di scrittura creativa molto più sereni. Un mondo più paratattico, un mondo più felice.

(Dedicato al Pizza, grazie per la consulenza)