Inaspettatamente, le ricerche milanesi e i regali di Natale hanno premiato la mia insistenza! Ecco quindi il bottino di fine 2015! Auguri a tutti!
sabato 26 dicembre 2015
Merry Christmas, Merry Flannery!
Della fama di cui Flannery O'Connor gode editori italiani e librai in genere sembrano a volte ignari. La scorsa estate un libraio veneto mi ha risposto quasi scocciato che era praticamente impossibile ordinare le edizioni italiane dei suoi libri; ad ottobre, a Berlino, in una per altro bellissima libreria interamente dedicata a testi inglesi e americani, non ho trovato traccia dei suoi libri.
Inaspettatamente, le ricerche milanesi e i regali di Natale hanno premiato la mia insistenza! Ecco quindi il bottino di fine 2015! Auguri a tutti!
Inaspettatamente, le ricerche milanesi e i regali di Natale hanno premiato la mia insistenza! Ecco quindi il bottino di fine 2015! Auguri a tutti!
sabato 12 dicembre 2015
Dove sei stato? A.M. Homes, "Questo libro ti salverà la vita"
Se avete letto “Che dio ci perdoni”,
troverete sicuramente delle somiglianze con “Questo libro ti
salverà la vita”. L'esistenza di due uomini, fino a quel momento
tranquilla, cristallizzata talvolta al limite della catatonia, è
sconvolta da un evento scioccante: nel caso di Harold Silver,
protagonista del romanzo del 2013 è esterno (la morte della cognata
per mano del fratello di Harold), mentre in questo del 2006 è
interno, un misterioso dolore che strazia il corpo di Richard Novack
senza apparente causa. Entrambi devono affrontare non solo i
cambiamenti che tali eventi determinano, ma anche la rabbia e la
solitudine che accompagnano ormai da tempo le loro vite. Se Silver è
consapevole di ciò che prova, Novack (non è differenza da poco) ha
cauterizzato il dolore eliminando con la memoria del passato
qualsiasi contatto con i suoi simili, fonte di possibile sofferenza.
All'inizio tutto è silenzioso,
immobile, nonostante Richard stia correndo sul suo tapis roulant e la
vicina della villa di fronte stia nuotando in piscina. Poi il dolore,
il dialogo surreale con l'operatrice del 911, l'ambulanza annunciata
da luci e sirene, le domande dei paramedici, la polizia, il
trasporto all'ospedale, l'osservazione.
Il mondo invade lo spazio vitale algido e dilatato della villa sulle
colline di Los Angeles e ruggendo lo trascina fuori come una piena
per salvarlo. Il giorno dopo, dimesso dal pronto soccorso, Richard
torna a casa, ma il guscio è ormai incrinato, il pulcino è
costretto a nascere. Si aggira per la città in uno stato
simile allo stupore, come se si rendesse conto per la prima volta
della sua reale esistenza. Comincia a conoscere persone: un
ciambellaio, una donna che piange al supermercato, gli uomini dei
turni di notte e di giorno, una star del cinema, Bob Dylan,
uno scrittore, un cane. Brevi incontri, scambi di battute, scene
scritte al presente come una sceneggiatura, che tutte insieme
costruiscono la narrazione. Sia che rimangano semplici conoscenze o
diventino amici, questi personaggi coinvolgono, inglobano Richard
nelle loro vite. La sua casa crolla, la sua esistenza tracima, lui si
abbandona, accetta tutto alla ricerca confusa e inconscia del dolore
rimosso, del momento in cui il suo cuore s'è ritirato dal mondo.
L'odissea di Richard Novack per tornare
nel mondo dei vivi ricorda quella di Billy Pilgrim, protagonista di
“Mattatoio 5”: anche lui annichilito da uno shock troppo grande
per essere gestito e superato, anche lui trascinato senza
volontà propria da una situazione all'altra, da una persona
all'altra, da un tempo all'altro. La creatura di Vonnegut però è
solo un testimone della propria morte interiore (e poi fisica),
intrappolato nel luogo e nel tempo del trauma come un criceto nella
sua ruota si limita a constatare l'indicibile ironia e orrore della
vita. Al contrario, Richard discende agli inferi del passato, li
attraversa e riemerge, ammaccato ma vivo, nel presente. Il suo
percorso ha un ritmo costante, spezzato da alcuni colpi di scena ma,
come una camminata in montagna, non strappa, non si ferma, nemmeno
nel finale che ci permette d'intravvedere un futuro ancora senza una
forma precisa, ma delineato nella consapevolezza del protagonista
della metamorfosi avvenuta.
Los Angeles resta sullo sfondo, A.M.
Homes non si sofferma in descrizioni di luoghi celebri o che per lei
possono avere un significato, la città non appare una delle forze
generatrici della storia. Al contrario, sono proprio i personaggi che
Richard incontra a connotarla e a darle sostanza: altrove
risulterebbero bizzarri o addirittura fuori posto, qui sono perfetti.
Tornando ai punti di contatto tra
questo romanzo e il capolavoro della Homes, ci si sorprende per
l'inconsueto ottimismo e fiducia nell'incontro con gli altri che
l'autrice v'infonde. Harold Silver in una versione moderna e
rutilante e comica della storia di Giobbe, e Richard impegnato in una
ricerca concreta e spirituale (da qui viene probabilmente il titolo
da manuale di auto miglioramento) sembrano incoraggiarci a credere
che in ogni caso, comunque, nonostante tutto, le cose finiranno bene.
A separarli, certo, ci sono diversi anni e libri che hanno visto la
scrittrice crescere continuamente in abilità e stile, ed è
interessante osservare come trame “sorelle” si sviluppino in modo
diverso. Tutt'e due lasciano traccia, tutt'e due da leggere.
(A.M. Homes “Questo libro ti salverà
la vita” 2006 Feltrinelli)
mercoledì 4 novembre 2015
Dalla Tela alla Pagina, le foto!
Ecco le foto dell'evento delle Penne di Pollo a Bookcity 2015. Nella biblioteca della Società d'Incoraggiamento Arti e Mestieri di Milano abbiamo passato una bella serata che è piaciuta anche a chi è venuto ad ascoltarci. Un ringraziamento particolare a Bruna Miorelli di Radiopopolare.
Per acquistare il nostro nuovo libro cliccate qui
Per acquistare il nostro nuovo libro cliccate qui
La bellissima biblioteca della SIAM di Milano |
L'attrice Raffaella D'Angelo legge i nostri racconti. |
Bruna Miorelli introduce le letture... |
martedì 3 novembre 2015
Dopo pranzo aspetta almeno due ore. "Villetta con Piscina", Herman Koch
Marc Schlosser ha qualcosa da raccontarvi. E' olandese, fa il medico di base. E' un professionista metodico, ha una moglie e due figlie, Julia di tredici anni e Lisa di undici. Marc Schlosser ha qualcosa da raccontarvi, qualcosa di terribile, che ha cambiato la sua vita e quella della sua famiglia. Intuirete di cosa si tratta, ma prima di saperlo con certezza dovete conoscere tutta la sua storia, a partire dalle giornate nello studio medico. Vi riferirà minuziosamente le sue opinioni sui pazienti e sul lavoro, il disgusto per i corpi dei pazienti, la sua preferenza per i figli maschi; illustrerà il funzionamento del sistema sanitario olandese, ricorderà le lezioni del professor Hessler, docente universitario con tendenze naziste. All'inizio vi sembrerà di soffocare, perché il dottor Schlosser non vi risparmierà alcun particolare e sarete tentati di mollare una lettura addirittura pornografica nella sua minuzia. Contemporaneamente, sentirete di essere prigionieri di questo racconto, ne rimarrete avvinti pur provando repulsione. Finalmente, dall'incessante rumore di fondo delle memorie e delle opinioni del vostro ospite emergeranno i dettagli: il luogo, le circostanze, i particolari, sempre narrati con ossessiva lentezza che diventerà agonia per chi pensa di aver capito l'accaduto ma vuole delle conferme. Confusi, sommersi dal continuo rimestìo di pensieri, ricordi, considerazioni, sarà difficile trovare i fatti nudi e crudi, e quando Schlosser nominerà direttamente le circostanze, vi fornirà deliberatamente una serie di particolari, dettagli dipinti su un quadro abbozzato.
Herman Koch ripropone il tema
dell'amore dei padri per i figli e delle conseguenze estreme di
questo sentimento. Ne “La cena” i figli andavano difesi, qui
vendicati, ma in entrambe i casi il protagonista non ha dubbi nel
momento in cui decide d'intervenire. Un insegnante, un medico,
persone rispettabili capaci di agire freddamente e senza ripensamenti
per distruggere chi minaccia la loro prole, che rappresenta in
definitiva una loro estensione. Anche la struttura richiama quella
del romanzo precedente, ma qui la crudeltà tocca nuovi limiti:
sconcerta il lettore e lo tiene (letteralmente) ostaggio di un
personaggio ossessivo che lo costringe a guardare il mondo dal suo
unico, imprescindibile punto di vista e alterna con estrema
naturalezza amore paterno e schifo per il prossimo, moralismo
e lussuria, pietà per gli animali e pianificazione di un omicidio. E
se dal racconto di Paul Lohman (protagonista del “La cena”)
riuscivamo a comprendere la sua inattendibilità dovuta a un disturbo
depressivo, qui l'enigma non viene sciolto, Schlosser è lucido e
consapevole, espone con efficacia una verità credibile, plausibile,
ma che non è in alcun modo confutabile dal lettore. Il suo monologo
ridondante, traboccante di dettagli e osservazioni, è in realtà
una copertura, una negazione continua alle domande che potreste porvi
e maschera l'assoluta reticenza. E' impossibile distinguire i reali
accadimenti dalla sua versione. Attraverso la sincerità malata del
suo protagonista Herman Koch rivela la sconcertante ferocia che corre
sotto la pelle delle relazioni affettive, famigliari, sociali, il non
detto di ognuno che mantiene i legami tradizionali e le gerarchie, le
strutture sociali che garantiscono il funzionamento della vita così
come la conosciamo. Emerge prepotente anche una critica feroce alla
società olandese (che potremmo estendere a tutta l'Europa)
rappresentata come lontana dall'ideale progressista che conosciamo,
dove il male s'insinua nel tessuto quotidiano della vita e la
pervade dall'inizio come in qualunque altro luogo del mondo, con
l'aggravante di non essere quasi notato da nessuno, ma anzi, ben
mimetizzato dall'immagine che il paese ha di sé e deve mantenere.
Koch smonta le certezze dei compatrioti alternando all'orrore momenti
di umorismo notevoli, tuttavia organici alla struttura della storia.
E' notevole poi l'abilità con cui controlla le strutture narrative e
temporali:non solo riesce a catturare e manipolare il lettore, ma
connette nel flusso inarrestabile della voce del suo protagonista
elementi cronologicamente distanti e non consecutivi, creando
all'inizio di ogni capitolo un'introduzione legata alla storia
personale del protagonista che s'innesta nella vicenda principale.
“Villetta com Piscina” porta a un
nuovo compimento le prerogative de “La Cena”, approfondendo ed
estremizzando scrittura e temi narrativi, aumentando i livelli di
lettura possibili a seconda dell'elemento su cui ci si concentra. Al
lettore sta scegliere la chiave d'interpretazione preferita,
lasciandosi comunque trascinare da una narrazione ineludibile.
(Herman Koch, “Villetta con Piscina”,
2011 Neri Pozza)
venerdì 23 ottobre 2015
Bookcity 2015
E' iniziato ieri Bookcity 2015, il festival che propone in tutta la città centinaia di eventi legati ai libri.
Le Penne di Pollo saranno presenti con due eventi:
domenica alle 11 presso la Biblioteca Siam in via Santa Marta 18, Monica Pegna presenterà il suo romanzo "Se il postino a volte non suona". Tutte le informazioni le trovate qui;
Sempre domenica ma alle 19, sempre alla Biblioteca Siam, un gruppo di Penne di Pollo presenterà il volume di racconti "Il giorno del matrimonio". E anche in questo caso trovate le informazioni qui.
Le Penne vi aspettano!
Le Penne di Pollo saranno presenti con due eventi:
domenica alle 11 presso la Biblioteca Siam in via Santa Marta 18, Monica Pegna presenterà il suo romanzo "Se il postino a volte non suona". Tutte le informazioni le trovate qui;
Sempre domenica ma alle 19, sempre alla Biblioteca Siam, un gruppo di Penne di Pollo presenterà il volume di racconti "Il giorno del matrimonio". E anche in questo caso trovate le informazioni qui.
Le Penne vi aspettano!
giovedì 6 agosto 2015
Non c'è ipotassi che tenga
Da
qualche anno lavoro nella scuola superiore con ragazzi disabili. La
loro condizione li porta ad avere difficoltà di comunicazione
immediata e di sviluppo di una Lingua Prima ben strutturata. Per
questo motivo quando usano l'italiano scritto inizialmente si lavora
di sottrazione, per rendere chiari i concetti. Una volta consolidate
le strutture di base, se il tempo scolastico lo permette si
introducono elementi di maggiore complessità e si arricchisce il
lessico. Questi studenti hanno spesso la percezione che per scrivere
bene si debbano usare tante parole: soggetto, verbo, complemento
oggetto non bastano, un italiano corretto prevede frasi lunghe e
complesse. Così distribuiscono articoli, preposizioni, congiunzioni
con gioiosa abbondanza, ma senza senso.
A
proposito degli esami di maturità, come ogni anno si trovano in rete
una serie di stupidari che raccolgono gli strafalcioni più eclatanti
degli studenti. Moltissimi errori di comprensione ("La teoria
dell'ostetrica" di Verga, "L'aperitivo categorico" di
Kant...) mettono il dubbio che i professori in classe si mangino le
parole o non sempre spieghino correttamente le definizioni, in
alternativa che alcuni redattori siano molto creativi. Altri
riguardano l'esposizione di concetti in parte esatti, che rovinano a
causa dell'iconoclastia sintattica e dell'uso casuale delle parole
funzionali -in particolare le preposizioni. Anche gli studenti
migliori, abbagliati dal miraggio di impressionare i commissari con
periodi articolatissimi, si perdono in un labirinto di subordinate.
Nella mia classe uno dei ragazzi più in gamba, attento, impegnato,
forte lettore, s'è beccato l'insufficienza nella prima prova.
Sono
stata ad una lezione di scrittura tenuta da un noto editor di una
notissima casa editrice. Tema era la scrittura
paratattica,
quella cioè che privilegia periodi brevi, frasi principali,
congiunzioni, e non utilizza subordinate. L'esempio più immediato in
letteratura è dato dagli scrittori americani. Al contrario, la
scrittura
ipotattica
è tipica della lingua italiana, ricca di frasi incassate, virgole,
"poiché", verbi al gerundio e così via. La spiegazione
era un po' tecnica ma interessante e ha sortito l'effetto di
risvegliare l'amor patrio nei cuori degli aspiranti letterati: più
d'uno infatti ha tuonato contro il misero stile paratattico, inadatto
-a loro parere- a indagare nel profondo, a raggiungere una
completezza
espressiva che
invece la nostrana letteratura ipotattica possiede. Eccoli, i poveri
maturandi di qualche anno fa, cresciuti e colpiti in testa dalla
Musa. Sono ancora ossessionati dall'idea di articolare frasi
immaginifiche che montano come la panna, impazziscono come la
maionese e raggiungono la completezza
espressiva totale.
Animati dal pregiudizio verso gli scrittori americani dimenticano che
la struttura paratattica è utilizzata in abbondanza nella
letteratura contemporanea di tutto il vecchio continente, basti
ricordare “Lo straniero” di Camus e l'opera della grande Agotha
Kristof, che straripano di completezza espressiva. Inutile dire che
(purtroppo per noi) tale spocchia si riflette direttamente nei loro
racconti. Ma tant'è, per molti italiani una scrittura comprensibile
e in apparenza semplice è sinonimo di superficialità e poca cultura
letteraria.
Ma
i corsi di scrittura sono solo il punto d'arrivo dell'enorme equivoco
che si perpetua a partire dalla scuola, alimentato dalla critica, da
intellettuali e scrittori italiani. L'arte deve essere complicata,
inafferrabile, a maggior ragione la letteratura. In gran parte il
motivo per il quale molti non leggono è questo: perché si annoiano!
E' difficile appassionarsi a volumi colmi di iperbolici fraseggi e
poveri di sostanza. Con i nostri programmi scolastici, quando uno
studente ha finito le superiori è già rovinato. Se alle elementari
e alle medie gli hanno fatto leggere Rodari e Calvino, le tegole di
Manzoni, D'Annunzio e Moravia lo stordiscono. Quando si risveglia
dopo il diploma, ha subìto un tale trauma che quando vede un libro è
invaso da un orrore irrazionale del quale -sempre a causa del trauma-
non ricorda il motivo. Non sto dicendo che si dovrebbero per forza
eliminare questi (e altri) autori dai programmi, anche se mi
piacerebbe. Solo dargli meno spazio, affiancargli i colleghi
stranieri, ampliare la prospettiva letteraria. All'inizio del
Novecento gli intellettuali italiani discutevano se fosse il caso di
aprirsi alle influenze letterarie straniere o restare arroccati nel
proprio palazzo di supponenza: l'Italia, paese della poesia classica,
patria di Dante, non poteva contaminarsi con la la plebea letteratura
straniera. Non abbracciare la novità fu un grave errore, che relegò
la produzione nazionale -già in ritardo sia in termini di
espressione linguistica, sia rispetto al genere del romanzo-
nell'angolo degli amatori, quasi sconosciuta all'estero, con
l'eccezione di Dante, che però non è un romanziere. Sì, D'annunzio
riuscì forse a creare un po' d'interesse intorno a sé, ma dovette
faticare non poco facendo altro (frequentare salotti, corteggiare
signore, pilotare aeroplani), diventando precursore dei tanti che
vendono libri non in virtù della validità di questi ultimi, ma
della celebrità acquisita dal loro (sedicente) autore in qualche
programma televisivo. Se chiedete a uno straniero chi è il primo
autore italiano che gli viene in mente probabilmente risponderà
Calvino, forse Ammaniti, forse addirittura Faletti.
Alla
fine la rivoluzione proletaria, almeno in letteratura è riuscita: la
scrittura “alta” dei baroni e dei tromboni italiani, la lingua
fiorita e vuota, farcita di ipotatticismi è stata vinta dal romanzo
plebeo che racconta in modo credibile (e comprensibile) storie
credibili di gente credibile e certamente più interessante di
qualche bamboccio viziato di inizio Novecento. Forse al Ministero
della Pubblica Istruzione ne sono fin troppo consapevoli, sanno
benissimo che se Verga dovesse essere affiancato nel programma da
Zola probabilmente evaporerebbe, e se si dovessero studiare “I
fiori del male”di Baudelaire o le “Illuminazioni” di Rimbaud
con la stessa devozione con cui si sciorinano le “Laudi” di
D'annunzio o le “Allegrie di naufragi” di Ungaretti,
difficilmente i secondi reggerebbero il confronto. Meglio nascondere
le prove della miopia intellettuale italiana e continuare a far
credere che abbiamo i migliori poeti e romanzieri, troppo difficili
ed espressivamente complessi per essere compresi da chiunque,
compresi i nostri indifesi studenti.
"Untangling your brain" |
E
così torniamo in classe, agli allievi, che indipendentemente dalle
caratteristiche individuali sono convinti che per prendere bei voti
si debba scrivere difficile, non importa cosa, la
forma è tutto.
Per scrivere invece serve qualcosa da dire, non basta essere bravi a
infilare parole su parole. E se si sa cosa raccontare, beh, non
bisogna mai dimenticare che scriviamo per un lettore e che ci
dobbiamo far capire. Ma se i programmi e i libri di testo prevedono
opere dal linguaggio eccessivamente complesso e povere di reali
contenuti, gli studenti -che a volte hanno solo la scuola come fonte
di stimoli letterari- non hanno scelta. Avvertono il disagio, hanno
difficoltà a studiare e scrivono componimenti inconcludenti, ma non
sanno perché.
Potendo
accedere a un manuale di storia o letteratura ve ne renderete conto:
spesso non si capisce cos'è successo, sintetizzare i fatti è
difficile, riassumere i concetti fondamentali è un bel casino, anche
per un adulto. (Per inciso, chi si occupa di libri scolastici delle
medie si lamenta di un livello linguistico sempre più basso
richiesto dagli editori. Alle superiori improvvisamente si deve
diventare fini letterati, analizzare con arguzia poemi e accadimenti
storici.)
Cosa
ce ne facciamo di libri che non capiamo? Sarebbe meglio forse, per
strutturare un pensiero chiaro e una lingua altrettanto chiara in cui
esprimersi (e magari divertirsi un po' di più), leggere Mark Twain,
Joseph Conrad, Emile Zola...la scelta è infinita. Qual è lo scopo
di arrovellare i neuroni su complesse descrizioni o l'italiano
dialettale dei letterati nostrani quando non si hanno gli strumenti
per comprenderli (pochissimi li hanno avuti da adolescenti), mentre i
loro contemporanei paratattici stranieri riuscivano a esprimere
meglio e più chiaramente la stessa idea letteraria? I vantaggi
sarebbero indubbi: studenti meno confusi, temi meno sconclusionati,
racconti meno asfissianti. E di conseguenza commissari di maturità e
docenti dei corsi di scrittura creativa molto più sereni. Un mondo
più paratattico, un mondo più felice.
(Dedicato al Pizza, grazie per la consulenza)
domenica 26 luglio 2015
Prodigi: "A Good Man is Hard to Find", Flannery O'Connor
Prima
di Alice Munro fu Flannery O'Connor. Coloro che ambiscono a scrivere
racconti sentono spesso risuonare il suo nome come un consiglio
affettuoso e imperativo. Ma nonostante sia ormai considerata un
classico ed esistano molti blog e siti a lei dedicati, non è così
facile vedere i suoi libri tra le mani dei passanti e degli amici;
pure ai corsi di scrittura è una conoscenza quasi esotica, nota ai
docenti e molto meno agli aspiranti scrittori. Non cercherò di
indagarne qui i motivi, anche se si tratta di una situazione curiosa:
parliamo infatti di una delle autrici che più hanno influito sulla
letteratura americana contemporanea in termini d'ispirazione, stile e
coraggio. Celebrata da Kurt Vonnegut come “La più grande
scrittrice di racconti della mia generazione” Flannery scriveva
senza timore di essere spietata o scontentare qualcuno, portando
avanti una sua visione molto personale; analizzava l'agire degli
uomini con la lucidità di un medico, vestiva la tragedia di
paradosso e acida ironia, e faceva parlare i suoi personaggi con una
lingua concreta, realistica, in cui compaiono volutamente termini
volgari (oggi assimilati al linguaggio letterario) o “politicamente
scorretti”.
Quando
venne pubblicato negli anni '50 “A good man is hard to find”
deve aver avuto un effetto dirompente: l'America era in preda al
terrore anticomunista, la retorica patriottica era a uno dei suoi
picchi storici e il razzismo era ancora sentito in diverse parti del
paese come una condizione naturale. La O'Connor rappresentò un mondo
rurale e piccolo borghese attraverso i personaggi che lo abitavano,
usando la loro lingua e catapultandoli in situazioni paradossali,
crudeli, che evidenziavano il lato oscuro della società. Il fatto
che ancora oggi si trovino in alcuni siti ultrareligiosi critiche
alla durezza del linguaggio e alla violenza mostrata in questi
racconti possono darci una misura dell'impatto che il libro può aver
avuto ai tempi. Flannery O'Connor era fervente cattolica, nacque e
visse nella “Bible Belt” protestante; fu anche quest'appartenenza
religiosa a darle un punto di vista particolare, diverso da quello
dei suoi vicini di casa, ma anche dei cattolici europei: era troppo
pragmatica e diretta per potersi assimilare a un cattolicesimo
europeo (italiano, spagnolo) molto moralista, ma anche troppo pietosa
per sentirsi a suo agio con la durezza della tradizione protestante.
Per lo stesso motivo e per l'onestà della sua convinzione, essa è
sempre presente sullo sfondo dei racconti ma non intacca mai
l'efficacia e il fine espressivo della narrazione, in altre parole
non rischia di diventare divulgazione religiosa. Ci sono invece la
critica a una religiosità superficiale e una disillusione quasi
inconciliabile con le speranze di cui la fede dovrebbe essere
portatrice, a partire da “A good man is hard to find”, un
classico quadretto di famiglia americana in gita annichilito da una
sorte agghiacciante (sarebbe un grande soggetto per i fratelli
Cohen), passando per “Circle in the fire” e “ Good country
people” fino a “The misplaced person” -storia di un sacrificio
in nome dell'immutabilità di un ordine costituito di schiavi e
padroni- che conclude in grande la raccolta, . In un paese che fa
della Nazione una religione, Flannery O'Connor s'ispirava ad
archetipi universali che ritroviamo nell'intera storia umana, e
ribaltava la mistica patriottica.
Uno schizzo per un'illustrazione ispirata a "A good man is hard to find" |
La
violenza in questo libro è fisica ma anche, soprattutto, prepotenza
e umiliazione, quella che sottende alle costruzioni sociali e alle
relazioni. Viene in mente la raccolta “Demoni Amanti” di Shirley
Jackson, contemporanea della O'Connor che come lei scelse di
concentrarsi sui dettagli e sui comportamenti per svelare i
meccanismi della sottile sopraffazione quotidiana. Le atmosfere dei
suoi racconti sono sospese, sovrannaturali, la realtà che conosciamo
si rivela un incubo; allo stesso modo in “A good man is hard to
find” troviamo personaggi credibili, circostanze realistiche che la
scrittrice avrà certamente sperimentato, sono avvolte da un senso di
mistero e attesa di un evento terribile che, prima o poi, si
abbatterà sugli uomini.
Ma
mentre la Jackson predilige narrare il piccolo paese, che rappresenta
la comunità e le sue regole, la massa che pensa all'unisono e non
prevede eccezioni, per la O'Connor -la quale visse quasi tutta la
vita in campagna- la natura è una silenziosa protagonista, pacifica
e perfetta, e l'uomo l'elemento di disarmonia, il male: la foresta
inghiotte il rumore di spari e nasconde una mattanza, una giovane
priva di una gamba resta prigioniera nella campagna perchè incapace
di muoversi, una grande proprietà diventa una miniatura della
società, metafora del paradiso terrestre avvelenata da singoli
individui che simboleggiano l'umanità.
La
scrittura è asciutta e concreta; cambia consistenza, diventa quasi
solida per raccontare i litigi di un vecchio col nipotino in gita in
città e la loro riconciliazione di fronte a un'immagine quasi
surreale (“The artificial nigger”), più fluida per rendere i
paesaggi e le atmosfere sognanti della campagna assolata o di un
battesimo in riva al fiume (“A circle in the fire”, “The
river”). Le immagini evocate sono inaspettatamente forti e restano
nella mente del lettore, precise come fotogrammi; è qualcosa di cui
non ci si rende subito conto, ma a distanza di tempo emergono dalla
fantasia con chiarezza e rimangono col lettore.
(Flannery
O'Connor “A good man is hard to find”, Mariner books, 1982. In
italiano trovate la raccolta completa “Tutti i racconti” edita da
Bompiani, 2009)
Alcuni
siti a cui attingere più informazioni su Flannery O'Connor:
E
se voleste visitare la sua fattoria in Georgia:
domenica 7 giugno 2015
Sotterranei: Émile Zola "Thérèse Raquin"
In questo romanzo del giovane Émile
Zola troviamo condensate diverse correnti letterarie del 1800.
Cronologicamente se stilisticamente siamo nel naturalismo francese,
la lingua è analitica, oggettiva, gli stati d'animo sono descritti
senza partecipazione e le situazioni hanno il sopravvento sullo
studio dei personaggi, che sembrano talvolta semplici funzioni,
maschere, simboli. Tuttavia i temi, le atmosfere, i comportamenti,
richiamano innegabilmente la precedente letteratura gotica e
romantica e soprattutto il successivo decadentismo.
Zola ci accoglie nel claustrofobico
Passage Du Pont-Noef, popolato da personaggi miserabili e strani, in
cui si trova il negozio di merceria della famiglia Raquin. Thérèse
è dietro il bancone, una donna gelida che obbedisce meccanicamente
alla sorella di suo padre, che l'ha cresciuta. Thérèse è sposata
col cugino Camille, un giovane malaticcio e viziato, suo solo
compagno d'infanzia. Questo destino, impostole dalla zia, è stato in
apparenza accettato senza batter ciglio dalla giovane. In realtà, il
suo animo è scosso da una dolorosa, abnorme fame di esperienze, un
vuoto psicologico ed emotivo che la sta inghiottendo. Il suo
desiderio è più viscerale della febbre per il piacere di Dorian
Gray, ma sembra trovare sazietà in Laurent. Rozzo,
sanguigno,sensuale, rappresenta l'esatto opposto del marito, e la
passione che nasce tra loro è qualcosa di predestinato e
inevitabile.
La trama, che ha un impianto da
tragedia greca, rivela immediatamente elementi che ricordano il
romanticismo e sono presagio degli sviluppi (le origini esotiche di
Thérèse, la duplicità delle relazioni famigliari, il sentimento di
attrazione e repulsione dei due amanti, il fantasma).
I personaggi sono analizzati con
distacco ma non acriticamente, a partire dalla bonaria Signora
Raquin, ossessionata dalla ricerca della tranquillità e dalla
protezione del figlio, manipola la vita della nipote-figlia
sottomettendola a disegni che devono assicurarle la serenità e
diventano invece causa della rovina. Come lei, tutti i personaggi del
libro usano gli altri per raggiungere un qualche scopo: gli ospiti
del giovedì vogliono evadere dalla noia, Laurent vivere senza
lavorare, Camille fare carriera.
Da "Thérèse Raquin" di Michel Carné, con Simone Signoret e Raf Vallone! |
Solo Thérèse è estranea (almeno
inizialmente) a questo gioco e la sua ipocrisia non è calcolo bensì
una difesa, un tentativo di estraniarsi e sopravvivere a un'esistenza
mostruosa. Il suo adulterio diventa così una disperata ribellione,
un' affermazione di volontà individuale che la costringe ad entrare
a pieno titolo nella farsa recitata dagli altri personaggi. Per
costoro la fortezza delle loro abitudini è un sicuro rifugio dalla
vita, una trappola di convenzioni soffocante ma sicura, che fornisce
un limite oltre il quale la sanità mentale non è garantita. Solo
Thérèse e Laurent oltrepassano quel limite. E come Dorian Gray
rimira la decadenza della propria anima nel ritratto che tiene chiuso
in soffitta, i due protagonisti assistono al degenerare delle loro
anime espresso dai loro corpi, usando l'altro come specchio e
nascondendo il proprio lento marcire con la menzogna. La scrittura
si contorce su sé stessa, ancora e ancora, confina il lettore nella
casa del Passage Du Pont-Noef , prigioniero di Thérèse e Laurent,
delle loro continue lotte, che non può fermare, lo costringe ad
assistere al loro disfacimento come vi è costretta la vecchia
Raquin, inferma e incapace di muoversi. Non c'è modo di arrestare la
caduta, di tornare indietro, Thérèse e Laurent arriveranno fino in
fondo alla loro rappresentazione.
Dalla narrazione crudele e precisa,
istante per istante della discesa all'inferno dei protagonisti emerge
la critica dell'autore alle convenzioni sociali del tempo e in
particolare al ruolo riservato alle donne, soprattutto se povere, in
balìa della volontà altrui, senza possibilità di essere
nient'altro che quello che viene deciso da altri. Un racconto
classico vestito degli abiti della Parigi di metà ottocento, che
stringe il lettore in un abbraccio inesorabile.
(Émile
Zola, “Thérèse Raquin”, 2007 Rizzoli . Lo trovate anche in
altre edizioni)
lunedì 25 maggio 2015
Gente fantastica che legge
Per caso ho scovato questo sito: awesome people reading
Scoprite anche voi quali fantastiche persone leggono!
Scoprite anche voi quali fantastiche persone leggono!
domenica 5 aprile 2015
Vita da scrittore: "Troppe puttane! Troppo canottaggio!"
Gustave Flaubert |
Non è necessario volersi
cimentare con la scrittura per appassionarsi a questo volume a cura
di Filippo D'Angelo che propone brani di Flaubert, Zola, Proust e
altri intellettuali francesi incentrati sulla sostanza del lavoro
letterario, le sue fatiche, le tentazioni di cedere alle lusinghe del
mercato, i rapporti coi critici, le poche soddisfazioni. La forma è
quella della citazione breve, dell'osservazione puntigliosa, che
rende la lettura divertente e scorrevole. Non si tratta però di una collezione di
aforismi a cui attigere per scrivere un biglietto d'auguri o per
divertire gli amici, bensì di un piccolo trattato in cui si
combinano brillantemente teoria della scrittura, biografia, critica e
storia della letteratura. Troviamo in queste pagine le amicizie tra
letterati e le convinzioni artistiche che li hanno guidati: la parola
d'ordine per tutti è lavoro,
senza il quale non c'è ispirazione che tenga: è quanto Flaubert, già riconosciuto maestro, ripete a Maupassant nelle sue
bellissime lettere, che lo rivelano come un mèntore sincero e
appassionato (“Troppe puttane! Troppo canottaggio! Troppo
esercizio!...Siete nato per fare dei versi, fatene! Tutto il resto
è vano.”); anche Baudelaire nei suoi “Consigli ai giovani
letterati” sceglie un modello di scrittore che non si accontenta
dell'ispirazione e lavora con dedizione, contrapponendolo inaspettatamente al mito dell'artista ribelle e sregolato, mentre
Gide arriva a definire la scrittura un lavoro artigianale. Gli autori sono rigorosi con sé stessi e con i colleghi, quanto più di talento è l'allievo tanto più severe saranno le critiche. Si percepiscono una solidarietà e una compattezza d'intenti
che uniscono questi artisti contro le circostanze e le categorie che minacciano la vita creativa.
che uniscono questi artisti contro le circostanze e le categorie che minacciano la vita creativa.
L'accurato lavoro di ricerca, selezione
e traduzione dell'autore/curatore fa il resto e ci regala un volume
tanto ricco e colto quanto piacevole, che ci aiuta a riscoprire le personalita' lettererarie più importanti di un periodo felicissimo della cultura francese e a
leggere (e scrivere!) con maggiore consapevolezza e piacere.
(“Troppe puttane! Troppo
Canottaggio!”- a cura di Filippo D'Angelo, 2014, Minimum Fax)
giovedì 26 marzo 2015
Book Pride 2015
Ancora poche ore all'apertura di Book Pride, prima fiera nazionale del libro indipendente. Molti editori, molti incontri, un progetto ambizioso che arriva in un momento delicato, in cui la biodiversità letteraria in Italia è in pericolo. Per tutte le informazioni potete consultare il sito dell'iniziativa.
Iscriviti a:
Post (Atom)