sabato 26 dicembre 2015

Merry Christmas, Merry Flannery!

Della fama di cui Flannery O'Connor gode editori italiani e librai in genere sembrano a volte ignari. La scorsa estate un libraio veneto mi ha risposto quasi scocciato che era praticamente impossibile ordinare le edizioni italiane dei suoi libri; ad ottobre, a Berlino, in una per altro bellissima libreria interamente dedicata a testi inglesi e americani, non ho trovato traccia dei suoi libri.
Inaspettatamente, le ricerche milanesi e i regali di Natale hanno premiato la mia insistenza! Ecco quindi il bottino di fine 2015! Auguri a tutti!

sabato 12 dicembre 2015

Dove sei stato? A.M. Homes, "Questo libro ti salverà la vita"

Se avete letto “Che dio ci perdoni”, troverete sicuramente delle somiglianze con “Questo libro ti salverà la vita”. L'esistenza di due uomini, fino a quel momento tranquilla, cristallizzata talvolta al limite della catatonia, è sconvolta da un evento scioccante: nel caso di Harold Silver, protagonista del romanzo del 2013 è esterno (la morte della cognata per mano del fratello di Harold), mentre in questo del 2006 è interno, un misterioso dolore che strazia il corpo di Richard Novack senza apparente causa. Entrambi devono affrontare non solo i cambiamenti che tali eventi determinano, ma anche la rabbia e la solitudine che accompagnano ormai da tempo le loro vite. Se Silver è consapevole di ciò che prova, Novack (non è differenza da poco) ha cauterizzato il dolore eliminando con la memoria del passato qualsiasi contatto con i suoi simili, fonte di possibile sofferenza.

All'inizio tutto è silenzioso, immobile, nonostante Richard stia correndo sul suo tapis roulant e la vicina della villa di fronte stia nuotando in piscina. Poi il dolore, il dialogo surreale con l'operatrice del 911, l'ambulanza annunciata da luci e sirene, le domande dei paramedici, la polizia, il
trasporto all'ospedale, l'osservazione. Il mondo invade lo spazio vitale algido e dilatato della villa sulle colline di Los Angeles e ruggendo lo trascina fuori come una piena per salvarlo. Il giorno dopo, dimesso dal pronto soccorso, Richard torna a casa, ma il guscio è ormai incrinato, il pulcino è costretto a nascere. Si aggira per la città in uno stato simile allo stupore, come se si rendesse conto per la prima volta della sua reale esistenza. Comincia a conoscere persone: un ciambellaio, una donna che piange al supermercato, gli uomini dei turni di notte e di giorno, una star del cinema, Bob Dylan, uno scrittore, un cane. Brevi incontri, scambi di battute, scene scritte al presente come una sceneggiatura, che tutte insieme costruiscono la narrazione. Sia che rimangano semplici conoscenze o diventino amici, questi personaggi coinvolgono, inglobano Richard nelle loro vite. La sua casa crolla, la sua esistenza tracima, lui si abbandona, accetta tutto alla ricerca confusa e inconscia del dolore rimosso, del momento in cui il suo cuore s'è ritirato dal mondo.

L'odissea di Richard Novack per tornare nel mondo dei vivi ricorda quella di Billy Pilgrim, protagonista di “Mattatoio 5”: anche lui annichilito da uno shock troppo grande per essere gestito e superato, anche lui trascinato senza volontà propria da una situazione all'altra, da una persona all'altra, da un tempo all'altro. La creatura di Vonnegut però è solo un testimone della propria morte interiore (e poi fisica), intrappolato nel luogo e nel tempo del trauma come un criceto nella sua ruota si limita a constatare l'indicibile ironia e orrore della vita. Al contrario, Richard discende agli inferi del passato, li attraversa e riemerge, ammaccato ma vivo, nel presente. Il suo percorso ha un ritmo costante, spezzato da alcuni colpi di scena ma, come una camminata in montagna, non strappa, non si ferma, nemmeno nel finale che ci permette d'intravvedere un futuro ancora senza una forma precisa, ma delineato nella consapevolezza del protagonista della metamorfosi avvenuta.

Los Angeles resta sullo sfondo, A.M. Homes non si sofferma in descrizioni di luoghi celebri o che per lei possono avere un significato, la città non appare una delle forze generatrici della storia. Al contrario, sono proprio i personaggi che Richard incontra a connotarla e a darle sostanza: altrove risulterebbero bizzarri o addirittura fuori posto, qui sono perfetti.
Tornando ai punti di contatto tra questo romanzo e il capolavoro della Homes, ci si sorprende per l'inconsueto ottimismo e fiducia nell'incontro con gli altri che l'autrice v'infonde. Harold Silver in una versione moderna e rutilante e comica della storia di Giobbe, e Richard impegnato in una ricerca concreta e spirituale (da qui viene probabilmente il titolo da manuale di auto miglioramento) sembrano incoraggiarci a credere che in ogni caso, comunque, nonostante tutto, le cose finiranno bene. A separarli, certo, ci sono diversi anni e libri che hanno visto la scrittrice crescere continuamente in abilità e stile, ed è interessante osservare come trame “sorelle” si sviluppino in modo diverso. Tutt'e due lasciano traccia, tutt'e due da leggere.
(A.M. Homes “Questo libro ti salverà la vita” 2006 Feltrinelli)


mercoledì 4 novembre 2015

Dalla Tela alla Pagina, le foto!

Ecco le foto dell'evento delle Penne di Pollo a Bookcity 2015. Nella biblioteca della Società d'Incoraggiamento Arti e Mestieri di Milano abbiamo passato una bella serata che è piaciuta anche a chi è venuto ad ascoltarci. Un ringraziamento particolare a Bruna Miorelli di Radiopopolare.
Per acquistare il nostro nuovo libro cliccate qui

La bellissima biblioteca della SIAM di Milano

L'attrice Raffaella D'Angelo legge i nostri racconti.


Bruna Miorelli introduce le letture...



martedì 3 novembre 2015

Dopo pranzo aspetta almeno due ore. "Villetta con Piscina", Herman Koch


Marc Schlosser ha qualcosa da raccontarvi. E' olandese, fa il medico di base. E' un professionista metodico, ha una moglie e due figlie, Julia di tredici anni e Lisa di undici. Marc Schlosser ha qualcosa da raccontarvi, qualcosa di terribile, che ha cambiato la sua vita e quella della sua famiglia. Intuirete di cosa si tratta, ma prima di saperlo con certezza dovete conoscere tutta la sua storia, a partire dalle giornate nello studio medico. Vi riferirà minuziosamente le sue opinioni sui pazienti e sul lavoro, il disgusto per i corpi dei pazienti, la sua preferenza per i figli maschi; illustrerà il funzionamento del sistema sanitario olandese, ricorderà le lezioni del professor Hessler, docente universitario con tendenze naziste. All'inizio vi sembrerà di soffocare, perché il dottor Schlosser non vi risparmierà alcun particolare e sarete tentati di mollare una lettura addirittura pornografica nella sua minuzia. Contemporaneamente, sentirete di essere prigionieri di questo racconto, ne rimarrete avvinti pur provando repulsione. Finalmente, dall'incessante rumore di fondo delle memorie e delle opinioni del vostro ospite emergeranno i dettagli: il luogo, le circostanze, i particolari, sempre narrati con ossessiva lentezza che diventerà agonia per chi pensa di aver capito l'accaduto ma vuole delle conferme. Confusi, sommersi dal continuo rimestìo di pensieri, ricordi, considerazioni, sarà difficile trovare i fatti nudi e crudi, e quando Schlosser nominerà direttamente le circostanze, vi fornirà deliberatamente una serie di particolari, dettagli dipinti su un quadro abbozzato.

Herman Koch ripropone il tema dell'amore dei padri per i figli e delle conseguenze estreme di questo sentimento. Ne “La cena” i figli andavano difesi, qui vendicati, ma in entrambe i casi il protagonista non ha dubbi nel momento in cui decide d'intervenire. Un insegnante, un medico, persone rispettabili capaci di agire freddamente e senza ripensamenti per distruggere chi minaccia la loro prole, che rappresenta in definitiva una loro estensione. Anche la struttura richiama quella del romanzo precedente, ma qui la crudeltà tocca nuovi limiti: sconcerta il lettore e lo tiene (letteralmente) ostaggio di un personaggio ossessivo che lo costringe a guardare il mondo dal suo unico, imprescindibile punto di vista e alterna con estrema naturalezza amore paterno e schifo per il prossimo, moralismo e lussuria, pietà per gli animali e pianificazione di un omicidio. E se dal racconto di Paul Lohman (protagonista del “La cena”) riuscivamo a comprendere la sua inattendibilità dovuta a un disturbo depressivo, qui l'enigma non viene sciolto, Schlosser è lucido e consapevole, espone con efficacia una verità credibile, plausibile, ma che non è in alcun modo confutabile dal lettore. Il suo monologo ridondante, traboccante di dettagli e osservazioni, è in realtà una copertura, una negazione continua alle domande che potreste porvi e maschera l'assoluta reticenza. E' impossibile distinguire i reali accadimenti dalla sua versione. Attraverso la sincerità malata del suo protagonista Herman Koch rivela la sconcertante ferocia che corre sotto la pelle delle relazioni affettive, famigliari, sociali, il non detto di ognuno che mantiene i legami tradizionali e le gerarchie, le strutture sociali che garantiscono il funzionamento della vita così come la conosciamo. Emerge prepotente anche una critica feroce alla società olandese (che potremmo estendere a tutta l'Europa) rappresentata come lontana dall'ideale progressista che conosciamo, dove il male s'insinua nel tessuto quotidiano della vita e la pervade dall'inizio come in qualunque altro luogo del mondo, con l'aggravante di non essere quasi notato da nessuno, ma anzi, ben mimetizzato dall'immagine che il paese ha di sé e deve mantenere. Koch smonta le certezze dei compatrioti alternando all'orrore momenti di umorismo notevoli, tuttavia organici alla struttura della storia. E' notevole poi l'abilità con cui controlla le strutture narrative e temporali:non solo riesce a catturare e manipolare il lettore, ma connette nel flusso inarrestabile della voce del suo protagonista elementi cronologicamente distanti e non consecutivi, creando all'inizio di ogni capitolo un'introduzione legata alla storia personale del protagonista che s'innesta nella vicenda principale.

“Villetta com Piscina” porta a un nuovo compimento le prerogative de “La Cena”, approfondendo ed estremizzando scrittura e temi narrativi, aumentando i livelli di lettura possibili a seconda dell'elemento su cui ci si concentra. Al lettore sta scegliere la chiave d'interpretazione preferita, lasciandosi comunque trascinare da una narrazione ineludibile.

(Herman Koch, “Villetta con Piscina”, 2011 Neri Pozza)




venerdì 23 ottobre 2015

Bookcity 2015

E' iniziato ieri Bookcity 2015, il festival che propone in tutta la città centinaia di eventi legati ai libri.
Le Penne di Pollo saranno presenti con due eventi:
domenica alle 11 presso la Biblioteca Siam in via Santa Marta 18, Monica Pegna presenterà il suo romanzo "Se il postino a volte non suona". Tutte le informazioni le trovate qui;
Sempre domenica ma alle 19, sempre alla Biblioteca Siam, un gruppo di Penne di Pollo presenterà il volume di racconti "Il giorno del matrimonio". E anche in questo caso trovate le informazioni qui.
Le Penne vi aspettano!

giovedì 6 agosto 2015

Non c'è ipotassi che tenga

Da qualche anno lavoro nella scuola superiore con ragazzi disabili. La loro condizione li porta ad avere difficoltà di comunicazione immediata e di sviluppo di una Lingua Prima ben strutturata. Per questo motivo quando usano l'italiano scritto inizialmente si lavora di sottrazione, per rendere chiari i concetti. Una volta consolidate le strutture di base, se il tempo scolastico lo permette si introducono elementi di maggiore complessità e si arricchisce il lessico. Questi studenti hanno spesso la percezione che per scrivere bene si debbano usare tante parole: soggetto, verbo, complemento oggetto non bastano, un italiano corretto prevede frasi lunghe e complesse. Così distribuiscono articoli, preposizioni, congiunzioni con gioiosa abbondanza, ma senza senso.

A proposito degli esami di maturità, come ogni anno si trovano in rete una serie di stupidari che raccolgono gli strafalcioni più eclatanti degli studenti. Moltissimi errori di comprensione ("La teoria dell'ostetrica" di Verga, "L'aperitivo categorico" di Kant...) mettono il dubbio che i professori in classe si mangino le parole o non sempre spieghino correttamente le definizioni, in alternativa che alcuni redattori siano molto creativi. Altri riguardano l'esposizione di concetti in parte esatti, che rovinano a causa dell'iconoclastia sintattica e dell'uso casuale delle parole funzionali -in particolare le preposizioni. Anche gli studenti migliori, abbagliati dal miraggio di impressionare i commissari con periodi articolatissimi, si perdono in un labirinto di subordinate. Nella mia classe uno dei ragazzi più in gamba, attento, impegnato, forte lettore, s'è beccato l'insufficienza nella prima prova.

Sono stata ad una lezione di scrittura tenuta da un noto editor di una notissima casa editrice. Tema era la scrittura paratattica, quella cioè che privilegia periodi brevi, frasi principali, congiunzioni, e non utilizza subordinate. L'esempio più immediato in letteratura è dato dagli scrittori americani. Al contrario, la scrittura ipotattica è tipica della lingua italiana, ricca di frasi incassate, virgole, "poiché", verbi al gerundio e così via. La spiegazione era un po' tecnica ma interessante e ha sortito l'effetto di risvegliare l'amor patrio nei cuori degli aspiranti letterati: più d'uno infatti ha tuonato contro il misero stile paratattico, inadatto -a loro parere- a indagare nel profondo, a raggiungere una completezza espressiva che invece la nostrana letteratura ipotattica possiede. Eccoli, i poveri maturandi di qualche anno fa, cresciuti e colpiti in testa dalla Musa. Sono ancora ossessionati dall'idea di articolare frasi immaginifiche che montano come la panna, impazziscono come la maionese e raggiungono la completezza espressiva totale. Animati dal pregiudizio verso gli scrittori americani dimenticano che la struttura paratattica è utilizzata in abbondanza nella letteratura contemporanea di tutto il vecchio continente, basti ricordare “Lo straniero” di Camus e l'opera della grande Agotha Kristof, che straripano di completezza espressiva. Inutile dire che (purtroppo per noi) tale spocchia si riflette direttamente nei loro racconti. Ma tant'è, per molti italiani una scrittura comprensibile e in apparenza semplice è sinonimo di superficialità e poca cultura letteraria.

Ma i corsi di scrittura sono solo il punto d'arrivo dell'enorme equivoco che si perpetua a partire dalla scuola, alimentato dalla critica, da intellettuali e scrittori italiani. L'arte deve essere complicata, inafferrabile, a maggior ragione la letteratura. In gran parte il motivo per il quale molti non leggono è questo: perché si annoiano! E' difficile appassionarsi a volumi colmi di iperbolici fraseggi e poveri di sostanza. Con i nostri programmi scolastici, quando uno studente ha finito le superiori è già rovinato. Se alle elementari e alle medie gli hanno fatto leggere Rodari e Calvino, le tegole di Manzoni, D'Annunzio e Moravia lo stordiscono. Quando si risveglia dopo il diploma, ha subìto un tale trauma che quando vede un libro è invaso da un orrore irrazionale del quale -sempre a causa del trauma- non ricorda il motivo. Non sto dicendo che si dovrebbero per forza eliminare questi (e altri) autori dai programmi, anche se mi piacerebbe. Solo dargli meno spazio, affiancargli i colleghi stranieri, ampliare la prospettiva letteraria. All'inizio del Novecento gli intellettuali italiani discutevano se fosse il caso di aprirsi alle influenze letterarie straniere o restare arroccati nel proprio palazzo di supponenza: l'Italia, paese della poesia classica, patria di Dante, non poteva contaminarsi con la la plebea letteratura straniera. Non abbracciare la novità fu un grave errore, che relegò la produzione nazionale -già in ritardo sia in termini di espressione linguistica, sia rispetto al genere del romanzo- nell'angolo degli amatori, quasi sconosciuta all'estero, con l'eccezione di Dante, che però non è un romanziere. Sì, D'annunzio riuscì forse a creare un po' d'interesse intorno a sé, ma dovette faticare non poco facendo altro (frequentare salotti, corteggiare signore, pilotare aeroplani), diventando precursore dei tanti che vendono libri non in virtù della validità di questi ultimi, ma della celebrità acquisita dal loro (sedicente) autore in qualche programma televisivo. Se chiedete a uno straniero chi è il primo autore italiano che gli viene in mente probabilmente risponderà Calvino, forse Ammaniti, forse addirittura Faletti.
Alla fine la rivoluzione proletaria, almeno in letteratura è riuscita: la scrittura “alta” dei baroni e dei tromboni italiani, la lingua fiorita e vuota, farcita di ipotatticismi è stata vinta dal romanzo plebeo che racconta in modo credibile (e comprensibile) storie credibili di gente credibile e certamente più interessante di qualche bamboccio viziato di inizio Novecento. Forse al Ministero della Pubblica Istruzione ne sono fin troppo consapevoli, sanno benissimo che se Verga dovesse essere affiancato nel programma da Zola probabilmente evaporerebbe, e se si dovessero studiare “I fiori del male”di Baudelaire o le “Illuminazioni” di Rimbaud con la stessa devozione con cui si sciorinano le “Laudi” di D'annunzio o le “Allegrie di naufragi” di Ungaretti, difficilmente i secondi reggerebbero il confronto. Meglio nascondere le prove della miopia intellettuale italiana e continuare a far credere che abbiamo i migliori poeti e romanzieri, troppo difficili ed espressivamente complessi per essere compresi da chiunque, compresi i nostri indifesi studenti.
"Untangling your brain"

E così torniamo in classe, agli allievi, che indipendentemente dalle caratteristiche individuali sono convinti che per prendere bei voti si debba scrivere difficile, non importa cosa, la forma è tutto. Per scrivere invece serve qualcosa da dire, non basta essere bravi a infilare parole su parole. E se si sa cosa raccontare, beh, non bisogna mai dimenticare che scriviamo per un lettore e che ci dobbiamo far capire. Ma se i programmi e i libri di testo prevedono opere dal linguaggio eccessivamente complesso e povere di reali contenuti, gli studenti -che a volte hanno solo la scuola come fonte di stimoli letterari- non hanno scelta. Avvertono il disagio, hanno difficoltà a studiare e scrivono componimenti inconcludenti, ma non sanno perché.
Potendo accedere a un manuale di storia o letteratura ve ne renderete conto: spesso non si capisce cos'è successo, sintetizzare i fatti è difficile, riassumere i concetti fondamentali è un bel casino, anche per un adulto. (Per inciso, chi si occupa di libri scolastici delle medie si lamenta di un livello linguistico sempre più basso richiesto dagli editori. Alle superiori improvvisamente si deve diventare fini letterati, analizzare con arguzia poemi e accadimenti storici.)
Cosa ce ne facciamo di libri che non capiamo? Sarebbe meglio forse, per strutturare un pensiero chiaro e una lingua altrettanto chiara in cui esprimersi (e magari divertirsi un po' di più), leggere Mark Twain, Joseph Conrad, Emile Zola...la scelta è infinita. Qual è lo scopo di arrovellare i neuroni su complesse descrizioni o l'italiano dialettale dei letterati nostrani quando non si hanno gli strumenti per comprenderli (pochissimi li hanno avuti da adolescenti), mentre i loro contemporanei paratattici stranieri riuscivano a esprimere meglio e più chiaramente la stessa idea letteraria? I vantaggi sarebbero indubbi: studenti meno confusi, temi meno sconclusionati, racconti meno asfissianti. E di conseguenza commissari di maturità e docenti dei corsi di scrittura creativa molto più sereni. Un mondo più paratattico, un mondo più felice.

(Dedicato al Pizza, grazie per la consulenza)

domenica 26 luglio 2015

Prodigi: "A Good Man is Hard to Find", Flannery O'Connor

Prima di Alice Munro fu Flannery O'Connor. Coloro che ambiscono a scrivere racconti sentono spesso risuonare il suo nome come un consiglio affettuoso e imperativo. Ma nonostante sia ormai considerata un classico ed esistano molti blog e siti a lei dedicati, non è così facile vedere i suoi libri tra le mani dei passanti e degli amici; pure ai corsi di scrittura è una conoscenza quasi esotica, nota ai docenti e molto meno agli aspiranti scrittori. Non cercherò di indagarne qui i motivi, anche se si tratta di una situazione curiosa: parliamo infatti di una delle autrici che più hanno influito sulla letteratura americana contemporanea in termini d'ispirazione, stile e coraggio. Celebrata da Kurt Vonnegut come “La più grande scrittrice di racconti della mia generazione” Flannery scriveva senza timore di essere spietata o scontentare qualcuno, portando avanti una sua visione molto personale; analizzava l'agire degli uomini con la lucidità di un medico, vestiva la tragedia di paradosso e acida ironia, e faceva parlare i suoi personaggi con una lingua concreta, realistica, in cui compaiono volutamente termini volgari (oggi assimilati al linguaggio letterario) o “politicamente scorretti”.

Quando venne pubblicato negli anni '50 “A good man is hard to find” deve aver avuto un effetto dirompente: l'America era in preda al terrore anticomunista, la retorica patriottica era a uno dei suoi picchi storici e il razzismo era ancora sentito in diverse parti del paese come una condizione naturale. La O'Connor rappresentò un mondo rurale e piccolo borghese attraverso i personaggi che lo abitavano, usando la loro lingua e catapultandoli in situazioni paradossali, crudeli, che evidenziavano il lato oscuro della società. Il fatto che ancora oggi si trovino in alcuni siti ultrareligiosi critiche alla durezza del linguaggio e alla violenza mostrata in questi racconti possono darci una misura dell'impatto che il libro può aver avuto ai tempi. Flannery O'Connor era fervente cattolica, nacque e visse nella “Bible Belt” protestante; fu anche quest'appartenenza religiosa a darle un punto di vista particolare, diverso da quello dei suoi vicini di casa, ma anche dei cattolici europei: era troppo pragmatica e diretta per potersi assimilare a un cattolicesimo europeo (italiano, spagnolo) molto moralista, ma anche troppo pietosa per sentirsi a suo agio con la durezza della tradizione protestante. Per lo stesso motivo e per l'onestà della sua convinzione, essa è sempre presente sullo sfondo dei racconti ma non intacca mai l'efficacia e il fine espressivo della narrazione, in altre parole non rischia di diventare divulgazione religiosa. Ci sono invece la critica a una religiosità superficiale e una disillusione quasi inconciliabile con le speranze di cui la fede dovrebbe essere portatrice, a partire da “A good man is hard to find”, un classico quadretto di famiglia americana in gita annichilito da una sorte agghiacciante (sarebbe un grande soggetto per i fratelli Cohen), passando per “Circle in the fire” e “ Good country people” fino a “The misplaced person” -storia di un sacrificio in nome dell'immutabilità di un ordine costituito di schiavi e padroni- che conclude in grande la raccolta, . In un paese che fa della Nazione una religione, Flannery O'Connor s'ispirava ad archetipi universali che ritroviamo nell'intera storia umana, e ribaltava la mistica patriottica.

Uno schizzo per un'illustrazione ispirata a "A good man is hard to find"
La violenza in questo libro è fisica ma anche, soprattutto, prepotenza e umiliazione, quella che sottende alle costruzioni sociali e alle relazioni. Viene in mente la raccolta “Demoni Amanti” di Shirley Jackson, contemporanea della O'Connor che come lei scelse di concentrarsi sui dettagli e sui comportamenti per svelare i meccanismi della sottile sopraffazione quotidiana. Le atmosfere dei suoi racconti sono sospese, sovrannaturali, la realtà che conosciamo si rivela un incubo; allo stesso modo in “A good man is hard to find” troviamo personaggi credibili, circostanze realistiche che la scrittrice avrà certamente sperimentato, sono avvolte da un senso di mistero e attesa di un evento terribile che, prima o poi, si abbatterà sugli uomini.
Ma mentre la Jackson predilige narrare il piccolo paese, che rappresenta la comunità e le sue regole, la massa che pensa all'unisono e non prevede eccezioni, per la O'Connor -la quale visse quasi tutta la vita in campagna- la natura è una silenziosa protagonista, pacifica e perfetta, e l'uomo l'elemento di disarmonia, il male: la foresta inghiotte il rumore di spari e nasconde una mattanza, una giovane priva di una gamba resta prigioniera nella campagna perchè incapace di muoversi, una grande proprietà diventa una miniatura della società, metafora del paradiso terrestre avvelenata da singoli individui che simboleggiano l'umanità.
La scrittura è asciutta e concreta; cambia consistenza, diventa quasi solida per raccontare i litigi di un vecchio col nipotino in gita in città e la loro riconciliazione di fronte a un'immagine quasi surreale (“The artificial nigger”), più fluida per rendere i paesaggi e le atmosfere sognanti della campagna assolata o di un battesimo in riva al fiume (“A circle in the fire”, “The river”). Le immagini evocate sono inaspettatamente forti e restano nella mente del lettore, precise come fotogrammi; è qualcosa di cui non ci si rende subito conto, ma a distanza di tempo emergono dalla fantasia con chiarezza e rimangono col lettore.

(Flannery O'Connor “A good man is hard to find”, Mariner books, 1982. In italiano trovate la raccolta completa “Tutti i racconti” edita da Bompiani, 2009)

Alcuni siti a cui attingere più informazioni su Flannery O'Connor:

E se voleste visitare la sua fattoria in Georgia:


domenica 7 giugno 2015

Sotterranei: Émile Zola "Thérèse Raquin"

In questo romanzo del giovane Émile Zola troviamo condensate diverse correnti letterarie del 1800. Cronologicamente se stilisticamente siamo nel naturalismo francese, la lingua è analitica, oggettiva, gli stati d'animo sono descritti senza partecipazione e le situazioni hanno il sopravvento sullo studio dei personaggi, che sembrano talvolta semplici funzioni, maschere, simboli. Tuttavia i temi, le atmosfere, i comportamenti, richiamano innegabilmente la precedente letteratura gotica e romantica e soprattutto il successivo decadentismo.

Zola ci accoglie nel claustrofobico Passage Du Pont-Noef, popolato da personaggi miserabili e strani, in cui si trova il negozio di merceria della famiglia Raquin. Thérèse è dietro il bancone, una donna gelida che obbedisce meccanicamente alla sorella di suo padre, che l'ha cresciuta. Thérèse è sposata col cugino Camille, un giovane malaticcio e viziato, suo solo compagno d'infanzia. Questo destino, impostole dalla zia, è stato in apparenza accettato senza batter ciglio dalla giovane. In realtà, il suo animo è scosso da una dolorosa, abnorme fame di esperienze, un vuoto psicologico ed emotivo che la sta inghiottendo. Il suo desiderio è più viscerale della febbre per il piacere di Dorian Gray, ma sembra trovare sazietà in Laurent. Rozzo, sanguigno,sensuale, rappresenta l'esatto opposto del marito, e la passione che nasce tra loro è qualcosa di predestinato e inevitabile.
La trama, che ha un impianto da tragedia greca, rivela immediatamente elementi che ricordano il romanticismo e sono presagio degli sviluppi (le origini esotiche di Thérèse, la duplicità delle relazioni famigliari, il sentimento di attrazione e repulsione dei due amanti, il fantasma).
I personaggi sono analizzati con distacco ma non acriticamente, a partire dalla bonaria Signora Raquin, ossessionata dalla ricerca della tranquillità e dalla protezione del figlio, manipola la vita della nipote-figlia sottomettendola a disegni che devono assicurarle la serenità e diventano invece causa della rovina. Come lei, tutti i personaggi del libro usano gli altri per raggiungere un qualche scopo: gli ospiti del giovedì vogliono evadere dalla noia, Laurent vivere senza lavorare, Camille fare carriera. 
Da "Thérèse Raquin" di Michel Carné, con Simone Signoret e Raf Vallone!
Solo Thérèse è estranea (almeno inizialmente) a questo gioco e la sua ipocrisia non è calcolo bensì una difesa, un tentativo di estraniarsi e sopravvivere a un'esistenza mostruosa. Il suo adulterio diventa così una disperata ribellione, un' affermazione di volontà individuale che la costringe ad entrare a pieno titolo nella farsa recitata dagli altri personaggi. Per costoro la fortezza delle loro abitudini è un sicuro rifugio dalla vita, una trappola di convenzioni soffocante ma sicura, che fornisce un limite oltre il quale la sanità mentale non è garantita. Solo Thérèse e Laurent oltrepassano quel limite. E come Dorian Gray rimira la decadenza della propria anima nel ritratto che tiene chiuso in soffitta, i due protagonisti assistono al degenerare delle loro anime espresso dai loro corpi, usando l'altro come specchio e nascondendo il proprio lento marcire con la menzogna. La scrittura si contorce su sé stessa, ancora e ancora, confina il lettore nella casa del Passage Du Pont-Noef , prigioniero di Thérèse e Laurent, delle loro continue lotte, che non può fermare, lo costringe ad assistere al loro disfacimento come vi è costretta la vecchia Raquin, inferma e incapace di muoversi. Non c'è modo di arrestare la caduta, di tornare indietro, Thérèse e Laurent arriveranno fino in fondo alla loro rappresentazione.
Dalla narrazione crudele e precisa, istante per istante della discesa all'inferno dei protagonisti emerge la critica dell'autore alle convenzioni sociali del tempo e in particolare al ruolo riservato alle donne, soprattutto se povere, in balìa della volontà altrui, senza possibilità di essere nient'altro che quello che viene deciso da altri. Un racconto classico vestito degli abiti della Parigi di metà ottocento, che stringe il lettore in un abbraccio inesorabile.
(Émile Zola, “Thérèse Raquin”, 2007 Rizzoli . Lo trovate anche in altre edizioni)


lunedì 25 maggio 2015

domenica 5 aprile 2015

Vita da scrittore: "Troppe puttane! Troppo canottaggio!"

Gustave Flaubert
Non sono un'appassionata di manuali di scrittura. E' interessante indagare il processo creativo di uno scrittore, tuttavia non so quanto un percorso così personale sia applicabile come regola ad altri. Uno dei volumi migliori di questo genere che abbia letto è  “On writing” di Stephen King, che coniuga piacevolmente racconto del metodo e autobiografia in un testo capace di trasmettere la passione per la scrittura dello scrittore e regalare qualche retroscena sui capolavori della prima parte della sua carriera. Diversamente, Patricia Highsmith  nel suo “Come si scrive un giallo” si rivolge soprattutto agli aspiranti autori, ai quali fornisce regole molto precise, valide per dilettanti e professionisti. Molto professionale ma decisamente freddina.
Non è necessario volersi cimentare con la scrittura per appassionarsi a questo volume a cura di Filippo D'Angelo che propone brani di Flaubert, Zola, Proust e altri intellettuali francesi incentrati sulla sostanza del lavoro letterario, le sue fatiche, le tentazioni di cedere alle lusinghe del mercato, i rapporti coi critici, le poche soddisfazioni. La forma è quella della citazione breve, dell'osservazione puntigliosa, che rende la lettura divertente e scorrevole. Non si tratta però di una collezione di aforismi a cui attigere per scrivere un biglietto d'auguri o per divertire gli amici, bensì di un piccolo trattato in cui si combinano brillantemente teoria della scrittura, biografia, critica e storia della letteratura. Troviamo in queste pagine le amicizie tra letterati e le convinzioni artistiche che li hanno guidati: la parola d'ordine per tutti è lavoro, senza il quale non c'è ispirazione che tenga: è quanto Flaubert, già riconosciuto maestro, ripete a Maupassant nelle sue bellissime lettere, che lo rivelano come un mèntore sincero e appassionato (“Troppe puttane! Troppo canottaggio! Troppo esercizio!...Siete nato per fare dei versi, fatene! Tutto il resto è vano.”); anche Baudelaire nei suoi “Consigli ai giovani letterati” sceglie un modello di scrittore che non si accontenta dell'ispirazione e lavora con dedizione, contrapponendolo inaspettatamente al mito dell'artista ribelle e sregolato, mentre Gide arriva a definire la scrittura un lavoro artigianale. Gli autori sono rigorosi con sé stessi e con i colleghi, quanto più di talento è l'allievo tanto più severe saranno le critiche. Si percepiscono una solidarietà e una compattezza d'intenti
che uniscono questi artisti contro le circostanze e le categorie che minacciano la vita creativa.
L'accurato lavoro di ricerca, selezione e traduzione dell'autore/curatore fa il resto e ci regala un volume tanto ricco e colto quanto piacevole, che ci aiuta a riscoprire le personalita' lettererarie più importanti di un periodo felicissimo della cultura francese e a leggere (e scrivere!) con maggiore consapevolezza e piacere.
(“Troppe puttane! Troppo Canottaggio!”- a cura di Filippo D'Angelo, 2014, Minimum Fax)


giovedì 26 marzo 2015

Book Pride 2015

Ancora poche ore all'apertura di Book Pride, prima fiera nazionale del libro indipendente. Molti editori, molti incontri, un progetto ambizioso che arriva in un momento delicato, in cui la biodiversità letteraria in Italia è in pericolo. Per tutte le informazioni potete consultare il sito dell'iniziativa.