lunedì 16 novembre 2009

Chi legge le prefazione?

Normalmente le evito.
Prima di tutto perchè sono curiosa, presa dalla fregola di leggere il volume, di conoscere il suo contenuto, di farmi conquistare dalla storia. Poi, perchè sono convinta che se un'opera letteraria vale, non c'è bisogno di "spiegarla", sarà compresa comunque, anche senza che prima uno studioso te la illustri. Anche se il linguaggio è quello di Shakspeare o di Euripide, la grandezza delle loro opere non può non raggiungere il lettore. Certo, magari con uno studio della lingua possiamo arrivare ad apprezzare maggiormente certi versi, certe espressioni, ma l'intreccio, i personaggi, lo sviluppo delle vicende, se è veramente forte, non ha bisogno di una mappa per essere capito.
Analizzando l'opera dal punto di vista letterario o addirittura psicologico, è poi facile che il relatore ci riveli parti salienti della storia o del carattere dei personaggi. Per esempio, in una versione de "Il giro di vite" di Henry James in mio possesso, c'è un'accurata analisi del comportamento della protagonista, che finisce per svelarci quasi tutto di lei. Fortunatamente l'ho letta dopo il romanzo, il che mi ha permesso di dar forma a determinate teorie personali e rispondere alle domande che mi ero fatta.
Di solito la prefazione la leggo dopo l'opera e allora sì che mi serve, per aiutarmi a capire certe cose, e indirizzarmi verso una critica e un'interpretazione dei motivi per cui è stata scritta. Magari ti viene rivelato un episodio della vita dello scrittore che dà una chiave di lettura a tutto lo scritto o semplicemente amplia l'orizzonte storico, aggiunge connessioni con altri autori contemporanei paragona altre opere a quella che abbiamo letto.
Pensavo di essere l'unica a non leggere le prefazioni, e mi sentivo un pò ignorante e limitata. Ho scoperto però che anche una professoressa di letteratura che conosco fa esattamente la stessa cosa.
In conclusione, anche se non le leggo prima, non sono contro le prefazioni, e anche se c'è quel "pre" a definirle, si può attingere alle loro informazioni quando si vuole, o non attingervi affatto.

venerdì 13 novembre 2009

Della Scuola 1: Domenico Starnone "Ex Cattedra"

Tra stupidari e cronache varie, la letteratura scolastica è un territorio ricco d’ispirazione: professori e studenti da anni si dedicano a raccontare la loro esperienza quotidiana, una di quelle che più lasciano il segno nella vita. Si tratta di libri che raccontano storie e contemporaneamente registrano l’evoluzione (o involuzione) dei sistemi scolastici, che cercano di dimostrarne i limiti educativi e (a volte) di come essere bravi a scuola non sia per forza la chiave del successo nella vita.

Tra il 1985 e il 1986 Domenico Starnone, professore (allora) di materie umanistiche e scrittore, insegnava in un liceo di Roma. Sulle pagine de “Il Manifesto”, teneva un diario di quell’anno scolastico, una specie di blog ante litteram in forma cartacea. Il titolo della rubrica era “Ex Cattedra” e questo libro raccoglie gli articoli pubblicati.

A quei tempi andavo al liceo, avevo 17 anni e sbavavo per partecipare alle manifestazioni e contestare l’allora Ministro Falcucci, di cui al momento non ricordo neanche i lineamenti. Purtroppo frequentavo una scuola privata e quindi di cortei e striscioni non si parlava neanche. Dopo più di vent’anni, di quelle lotte che durarono così poco, sgonfiandosi nel giro di qualche mese, rimane solo il ricordo -e non per tutti, scommetto.

Ma le storie di quell’anno scolastico vissuto da Starnone sono rimaste nero su bianco e potrebbero essere quelle di una qualunque scuola italiana. Ci sono gli allievi straripetenti, quelli che suonano una batteria invisibile, quelli che snobbano il programma scolastico e si dedicano ad altre letture, gli inattaccabili secchioni desiderosi di compiacere il prof (che a questo scopo intraprendono la lotta studentesca). I professori intrecciano relazioni sentimentali sotto gli occhi inorriditi del preside e del parroco che insegna religione, si scatenano guerre intestine ideologiche e lavorative tra insegnanti ed autorità scolastica a base di circolari e dazebau appesi nella bacheca della sala professori, irrompe il precariato, problema già diffuso allora.

E poi, gli amori contrastati degli studenti e le temute gravidanze, l’autogestione, gli scrutini, le infinite ed inutili riunioni. Il tutto intrecciato con gli avvenimenti di quell’anno, dal bombardamento di Lampedusa da parte della Libia alla nube di Chernobyl.

Starnone ed i suoi colleghi attraversarono l’anno scolastico sperando in un nuovo 68’ e rimanendo puntualmente delusi. Indulgenti coi loro allievi, vivevano con la sensazione di essere gli unici ad invecchiare in un mondo che di anno in anno restava sempre giovane ed uguale a sé stesso. Destino comune a tutti gli insegnanti, che se fanno il loro lavoro con coscienza e passione non possono evitare di soffrire dello scazzo degli studenti, dei problemi cronicizzati, dello sfascio della scuola pubblica Italiana, che forse non era così difficile prevedere anche nel 1985.

Un libro divertente e malinconico; non c’è bisogno di aver vissuto quegli anni per apprezzarlo, anche se certamente il filo dei propri ricordi scolastici aggiunge qualcosa alla lettura.

lunedì 2 novembre 2009

L'odio: Giuseppe Genna "Dies Irae", prima parte

Non lo faccio mai. Voglio dire, non scrivo mai di un libro che non ho ancora finito di leggere. Ma questa volta sento il bisogno di parlarne. Il tizio che mi ha prestato "Dies Irae" di Giuseppe Genna me lo ha pubblicizzato come se l'avesse scritto lui. Bellissimo, bellissimo, durissimo.
In passato con questa persona ho condiviso diverse letture, Ellroy soprattutto. Sangue, pestaggi, intrighi e violenza a tutto spiano. Non mi ritengo una perbenista, il sangue non mi fa impressione e credo di non essere un tipo particolarmente influenzabile, da anni mi nutro di horror e noir.
Ora sono pressapoco a pagina 254 e mi sto chiedendo se sia il caso di continuare a leggere quest'opera. Opera, non saprei neanche se sia il caso di chiamarlo libro, o romanzo. Io lo sto percependo come uno sfogo, un rigurgito, un'emorragia di memorie dolorosissime, proprie di Genna e di altre persone che ha conosciuto.
Parte da un ricordo comune a tantissimi, la tragedia del piccolo Alfredo Rampi, morto in fondo ad un pozzo nella primavera del 1981 , facendo inizialmente pensare che si tratti di un thriller-inchiesta su quella terribile vicenda. Già così ce n'è abbastanza per far star male un sacco di gente, me compresa. Si tratta di una ferita che rimane nel profondo di tutti quelli che vi hanno assistito, nonostante da allora si sia visto di tutto, compreso lo scoppio della prima guerra del Golfo in diretta, la caduta delle torri gemelle e un omicidio di camorra filmato e diffuso attraverso giornali e tv. Alfredo Rampi non l'ha visto nessuno mentre era nel pozzo, nessuno ha sentito la sua voce, eppure ci ha cambiato la vita, ci ha piegato dentro, la sua morte ha spezzato qualcosa che non si può riparare e non si può curare.
Genna inizia da lì per poi cominciare a parlare di sè, della sua famiglia, della sua giovinezza e dei dolori che si porta dietro. Ci sta che uno si sfoghi, ci sta che uno scriva per fare i conti con sè stesso, coi propri incubi e le proprie paure. E' un libro impubblicabile, lo dice lui stesso, un libro che non vende, perchè è roba vera, forse.
Io lo capisco, tutti scrivono per parlare di sè stessi e regolare i propri conti, ma quando alle proprie sofferenze, alla storia terribile di Alfredo Rampi, ai presunti intrighi dietro di essa si aggiungono le storie di altri due personaggi, Paola e Monica, la situazione diventa insostenibile. Soprattutto la storia di Paola, ex tossicomane, vittima di violenza in famiglia, ti porta veramente sull'orlo del suicidio. Genna ci si riferisce col suo linguaggio delirante che si avviluppa su sè stesso come una spirale, ripetendosi all'infinito, stritolandoti. Sai cosa sta per arrivare, non è un segreto, lo anticipi facilmente, ma poi.
Non ce la fai, non vuoi andare avanti e vorresti prendere a sberle il tizio che t'ha prestato questa mostruosità. Che senso ha leggere altre 600 pagine circa di quest'orrore? C'è un finale, una redenzione, una salvezza, o va avanti così fino alla fine? Perchè queste sono storie vere, non c'è un pietoso dio scrittore che aggiusta un finale per farti dormire sonni tranquilli. Mi sento che una guardona che spia la sofferenza altrui e non ne ho bisogno, io, non mi pascio di queste cose, mi fanno veramente star male e poi -davvero- non ci dormo la notte.
Non so, in questo momento continuerei a leggere solo per la mia fissazione di finire qualunque libro io inizi.