mercoledì 10 dicembre 2014

Entrate in queste teste: William Faulkner "Mentre Morivo"

Con certi libri bisogna lottare: fare a pugni con la storia, parare i colpi della lingua, subire le offese di personaggi insopportabili. Se ne vale la pena, a volte arriviamo in fondo, ma non è chiaro se abbiamo vinto noi, che abbiamo perseverato, o il libro, che ci ha portati fino all'ultima pagina. “Mentre Morivo” come la famiglia che rappresenta, non va mai incontro al lettore, piuttosto si ritira dai suoi tentativi di comprensione e a volte sembra proprio che non voglia farsi leggere. E' duro e impenetrabile come un blocco di pietra o di legno durissimo, un blocco compatto di immagini, parole a volte sconnesse, frasi smozzicate o lunghissime, che partono da un significato e via via sbiadiscono e perdono senso. Dal magma di questa lingua si levano le voci dei Bundren ed emergono, prima confusi, indistinguibili l'uno dall'altro, poi sempre più chiari, i loro profili, netti.
Addie Bundren è morta. Il suo ultimo desiderio era di essere seppellita nella sua città natale, Jefferson, e nonostante la pioggia abbia ingrossato il fiume, che a sua volta ha buttato giù i ponti per arrivarci, la sua famiglia parte su un carro con la bara della donna per esaudire la sua volontà.
Ci sono tutti: Darl, reduce di guerra, Cash il falegname, Jewel, il preferito di Addie, Dewey Dell la figlia, Vardaman il piccolo e Anse, il marito gobbo e sdentato. Partono, incuranti dei moniti dei vicini. Anse e i suoi figli hanno i loro buoni motivi per proseguire nonostante il pericolo, non ascolterebbero nemmeno Dio in persona. Legati a quel corpo e al giuramento fatto come ad una maledizione, i Bundren precipitano all'inferno, tra fuoco e acqua, testardi, inarrestabili. Giungeranno infine a Jefferson in condizioni pietose, seguiti dagli avvoltoi, fisicamente ed emotivamente stremati.
“Mentre morivo” si potrebbe definire un “Apocalypse Now” su un carro trainato da muli, una discesa nell'Ade, un percorso delirante creato dalle menti degli stessi personaggi. La narrazione si sviluppa attraverso i pensieri di protagonisti e comprimari che raccontano in un flusso di coscienza la vicenda, così che il lettore si trova direttamente nella loro testa. Nessuna mediazione, le loro elucubrazioni sono grovigli d'immagini dai quali il lettore estrae, a volte faticosamente, la storia. Si trova però in una posizione addirittura migliore che se ci fosse stato un narratore onnisciente: conosce in prima persona la famiglia e i legami che intrattiene col mondo, dall'interno, come nessun altro potrebbe. Sa quali sono i loro desideri, le loro sofferenze e i rancori che covano dietro l'ostinata unità attorno alla bara. Ognuno di loro pensa in modo differente, con una sua lingua, che a partire dal blocco iniziale si forma e di differenzia durante il libro. Le menti della famiglia ribollono, ma fuori da ognuno di loro la comunicazione è praticamente azzerata. E' questo un presagio della precarietà dei rapporti all'interno del gruppo così testardamente coeso attorno al nucleo rappresentato dalla cassa in cui  riposa Addie: non appena sarà sepolta di lei non resterà in apparenza ricordo, e le passioni e gli odi fino a quel momento controllati, esploderanno.
I Bundren si muovono col loro carro dentro un sogno, una visione apocalittica che sviluppa una trama esile, alla quale si possono dare diverse interpretazioni a seconda dei contesti e attraverso una simbologia complessa. A partire dal titolo che evoca la discesa nell'Ade di Agamennone, si susseguono gli archetipi incarnati dagli stessi figli, che assumono i loro ruoli come in una tragedia greca o in un'allegoria cristiana: Jewel simbolo del peccato e della forza vitale della Terra; Darl il capro espiatorio, l'agnello sacrificale che libera la famiglia dal proprio fardello, ma anche una sorta d'illuminato, essendo l'unico ad aver varcato i confini dello Stato e aver conosciuto il mondo, il depositario dei segreti più intimi di almeno due dei suoi fratelli; Dewey Dell è la maternità, la prosecuzione della vita, Cash è un falegname, altra figura legata alla cristianità, Vardaman infine  l'innocente. E Anse? Per come lo vedo io, il diavolo: nonostante l'aspetto innocuo, egli è dotato di uno strano fascino di cui i vicini sono vittime, e per quanto lo disprezzino sono sempre pronti a soccorrerlo in nome dei valori cristiani e del buon vicinato. Non solo, è lui a spingere la famiglia verso l'abisso, portandola a correre gravi pericoli. Un lupo travestito da agnello insomma, che sfrutta la pietà altrui per raggiungere i propri scopi. L'atmosfera è inoltre caricata dal fanatismo religioso di Cora Tull, e rafforzata dalla presenza degli animali, anche loro simboli forti, dal cavallo, al pesce (la forza della Terra e il simbolo degli antichi cristiani), agli avvoltoi (la morte e dunque la rinascita nella religione cristiana). Addie Bundren, presente in modo preponderante nella prima metà del libro attraverso le parole dei figli, dei vicini e del marito, dopo il suo monologo (un lungo lamento contro gli uomini e la loro superficialità, legata più all'apparenza che alla realtà delle esperienze e delle passioni) perde consistenza, si dissolve e infine svanisce, lasciando ricordo ricordo di sé solo nella prole. Dietro l'apparenza dura e asciutta “Mentre morivo” nasconde un mondo complesso che se William Faulkner avesse voluto descrivere con i mezzi della letteratura più tradizionale avrebbe potuto espandersi anche per molti volumi. Le sue scelte ancora oggi modernissime gli hanno permesso di condensare questo mondo in poche pagine, restituendolo al lettore in tutta la sua allucinata complessità.

(William Faulkner “Mentre morivo”, 2000, Adelphi)


sabato 22 novembre 2014

Salone del Libro Usato

Accidenti, quasi lo mancavo. C'è quasi tutta la domenica per esplorare il Salone Internazionale del Libro Usato di Milano. Tutte le informazioni le trovate qui. Fate scroll della pagina, indirizzo e orari sono a metà pagina. Buon divertimento.

martedì 18 novembre 2014

Quello che sapevamo di Eliana-Bookcity 2014

Ecco qualche foto dell'evento di domenica scorsa al Castello Sforzesco. Un pubblico numeroso, considerati sia l'orario che i problemi di viabilità e trasporti causati dagli allagamenti. Dobbiamo un grande ringraziamento a Bruna Miorelli, che ci ha aiutati durante la preparazione del libro, ha scritto l'introduzione e ci ha accompagnati durante la mattinata a Bookcity.
E se v'interessa acquistare il libro, scrivete numerosi all'indirizzo pennedipollo@gmail.com.
Le foto sono di Elisabetta Piccolo, che ringraziamo.


Ecco le Penne di Pollo! Meno una che si è fermata a firmare autografi. A sinistra, Bruna Miorelli

sabato 15 novembre 2014

Quello che sapevamo di Eliana


Mancano poche ore all'evento di cui vi avevo accennato qualche post fa, "Quello che sapevamo di Eliana", inserito nel programma di Bookcity 2014. Si tratta di un progetto di scrittura condivisa delle Penne di Pollo, un gruppo di aspiranti scrittori di cui faccio parte, che si è sviluppato dalla tarda primavera all'autunno di quest'anno. L'idea non è nuova ma sempre accattivante, creare un personaggio (il nostro si chiama Eliana Cascia) con le voci di chi lo conosce o -come in questo caso- lo ha conosciuto, ricostruendo, confermando o distruggendo l'immagine nota ai più. Partendo da un necrologio scritto ad hoc dal Presidente del gruppo ognuno dei partecipanti ha scritto un racconto da un diverso punto di vista: di un parente, un amico, qualcuno che conosceva la protagonista solo di fama ma non personalmente. Ne è venuto fuori un ritratto eterogeneo e speriamo interessante. Domani alle ore 10 nelle Sale Panoramiche del Castello Sforzesco di Milano presenteremo il volume in cui sono raccolti i racconti e chi vorrà potrà prenotare il libro, disponibile a breve, anche in formato ebook
Se vi va, ci si vede lì.

giovedì 13 novembre 2014

Street art


Vi propongo un divertente post in cui sono raccolte immagini di graffiti ispirati alla letteratura. Non sono tutti capolavori, però qualcuno è davvero interessante. Cliccate QUI

mercoledì 12 novembre 2014

Né carne né pesce: Jean Dutourd, "Testa di Cane"

Edmond Du Chaillu nasce con un destino segnato e, a parte lui, tutti ne sono immediatamente consapevoli. Appena vedono la sua testa di cucciolo di Spaniel sul corpicino di bambino, i signori Du Chaillu sono sommersi dall'orrore e dalla vergogna, la mente di entrambi entra in corto circuito dal quale non si riprendono. Scioccati, privi di riferimenti e guidati da perbenismo e paranoia, impongono al piccolo una bizzara educazione fatta di severità, panico e un'estrema confusione. Edmond sarebbe un bambino (quasi) del tutto normale, in grado di vedere la propria diversità positivamente se l'atteggiamento dei genitori -più delle prese in giro dei compagni di scuola e della pietà degli insegnanti- non gli creasse i primi traumi e i primi complessi che riemergeranno sempre più forti nel tempo. Nonostante tutto Edmond studia, si laurea, cerca di entrare nel mondo degli uomini, al quale sente di appartenere. Ne viene respinto brutalmente, abbandonato dalla madre e dal padre, e dagli altri a volte compatito a volte deriso. Trova comprensione solo in poche persone che lo apprezzano e si dispiacciono per la sua situazione. Eppure non si arrende, prova e riprova attraversando decine di esperienze diverse, tutte destinate a portargli dolore.
Un solo evento nella vita di un individuo, altrimenti comune e incolore, ne diventa il punto focale attorno al quale quell'esistenza si forma e si struttura. Senza la testa di Spaniel la storia di Edmond non esisterebbe, è questa a renderlo speciale, degno di nota e per quanta sofferenza lui possa provare non arriva mai a odiare la sua parte canina. E' anzi affascinato dalla propria unicità e in cerca di origini che giustifichino la sua esistenza, trova suoi fratelli nella mitologia: il Minotauro e gli dèi egizi, esseri potenti e superiori che incutevano terrore agli uomini e di cui Edmond è l'erede. Nella società moderna gli dèi sono ancora temuti ma non si cerca più la loro benevolenza. La diversità da simbolo di potenza è diventata debolezza, gli dèi diventano mostri, esorcizzati e annichiliti con l'esclusione e lo scherno.Trascinato dalle emozioni Edmond attraversa ogni periodo della propria vita inconsciamente in bilico fra l'animale e l'uomo: la dicotomia è tanto evidente che il desiderio di essere incluso a pieno titolo in uno dei due gruppi appare talvolta come una forzatura che lui stesso s'impone, pur di trovare una collocazione sociale ed emotiva.
Qualcuno leggendo questa storia potrebbe paragonarla a “Cuore di cane” di Mikhail Bulgakov, in cui troviamo una situazione che apparentemente sovrapponibile; ma mentre quello è un'allegoria politica e sociale in cui la trasformazione di un cane in uomo è metafora del cambiamento operato dalla rivoluzione comunista nelle classi sociali russe, “Testa di cane” esplora l'animo umano e la società, svelata come un branco minaccioso pronto a scacciare il diverso, il nuovo. E se Pallino, il randagio usato come carne da esperimento dal dottor Preobraženskij, era cane fino in fondo e come tale continuava a comportarsi, sfruttando le maniere umane per ribellarsi al proprio “creatore”, al contrario Edmond cerca di uniformarsi, di essere uguale agli altri. La contrapposizione tra ragione umana e natura si personifica in lui, pronto a qualsiasi cosa pur di essere accettato dalla prima e spinto dall'istinto e dalla disperazione verso l'irrazionale e il selvaggio. Non imparerà mai a conoscere a fondo gli uomini, non riuscirà mai a comprendere abbastanza la loro mente, così simile in fondo a quella dei cani: scacciato, deriso, disilluso, troverà il solo rifugio possibile nella cancellazione di quel mondo che lo ha rifiutato “sprofondando nel cane” (come scrive Dutourd) e accettando finalmente la propria terribile strada.
In queste poche pagine è contenuta una riflessione profonda sull'esclusione di chi non ci somiglia, tanto potente che a tratti si prova angoscia e disgusto, e lo spensierato sottotitolo: “Cronanca spassosa di una vita infelice” appare davvero troppo crudele. Kurt Vonnegut diceva che l'umorismo è una reazione quasi fisiologica alla paura e trovo che questo aforisma andrebbe aggiunto sul frontespizio, perché nonostante lo stile leggero e brillante, la quantità di personaggi curiosi che s'incontrano e la grande simpatia per il protagonista, questa storia lascia impauriti, per come siamo e come potremmo diventare se il nostro branco ci scacciasse.

(Jean Dutourd, “Testa di Cane”, 2013 Vinili ISBN edizioni )





venerdì 24 ottobre 2014

Bookcity 2014


Tra poche settimane torna Bookcity, la manifestazione legata all'amore per i libri che per quattro giorni renderà meno triste e più interessante stare a Milano. Quest'anno il gruppo di aspiranti scrittori di cui faccio parte, "Le Penne di Pollo" presenterà un libro (disponibile anche in versione ebook) al quale abbiamo contribuito con tredici racconti. La presentazione si terrà domenica 16 Novembre al Castello Sforzesco. Per tutte le informazioni vi rimando a questo link .
Vi aspettiamo!

domenica 14 settembre 2014

Aurora Boreale: John Cheever, "I racconti"

Se John Cheever fosse vissuto a Parigi negli anni venti del secolo scorso e avesse fatto parte della "Festa Mobile" di Hemingway e Fitzgerald godrebbe oggi della fama che merita e probabilmente alcuni suoi colleghi considerati giganti della letteratura americana uscirebbero fortemente ridimensionati dal confronto con lui. Nato nel 1912, non ebbe però modo di far parte di quel gruppo, visse invece la crisi economica della famiglia, il conseguente etilismo del padre e la separazione dei genitori. Esperienze che influenzarono le sue ambizioni e che emergono e persistono in tutta la sua produzione. Il suo terreno narrativo non era -e forse mai avrebbe potuto essere- quello dell'eroismo guerresco (anche se partecipò al secondo conflitto mondiale) e delle battute di caccia, bensì la quotidianità della città e della suburbia americana punteggiata di villette bianche con giardino immacolato, in cui le giornate si svolgono tra riunioni di comitati per la moralità, barbeque con gli amici, aperitivi (in questi racconti si beve tantissimo), che ne costituiscono la liscia e immutabile superficie e contemporaneamente ne strutturano la macchinosa, rituale socialità.

I personaggi di queste storie sono ricchi ed ex ricchi caduti in disgrazia, operatori degli ascensori nei palazzi in città, impiegati che prendono il treno per andare a lavorare, casalinghe annoiate o super impegnate nei comitati di cui sopra. Persone imbevute di normalità, sospese in un mondo arido ma di apparente benessere di cui hanno nella maggior parte dei casi accettato i limiti; sono legate alle loro certezze e abitudini dalla consapevolezza che è proprio l'appartenere a un gruppo con regole consolidate a dare loro forza sufficiente per sopportare la vita che quel gruppo struttura. Nella maggior parte dei casi nessuno di loro si sognerebbe di andare contro queste regole. Ma per ognuno arriva un momento in cui la vita deraglia dai consueti binari, aprendo la porta all'imprevisto e offrendo talvolta una scelta inaspettata. Come accade ne "Il marito di campagna" in cui un uomo in viaggio d'affari precipita con l'aereo che lo sta portando a casa. Atterra nei campi, e il protagonista torna dalla sua famiglia in tempo per la cena. Per la moglie e i figli non è successo nulla e lui non riuscirà a raccontare (e poi dimenticherà) l'evento straordinario che ha vissuto ma che lo ha irrimediabilmente, segretamente cambiato. O come capita al protagonista di "Chimera": vessato da una moglie capricciosa e depressa, crea per sé un'esistenza diversa e fantastica che sovrappone a quella reale. Cheever al contrario di Richard Yates -suo contemporaneo, col quale condivideva le ambientazioni e caratteri dei personaggi- sembrava amare i sobborghi borghesi di cui scriveva (lui stesso viveva in apparenza la più normale delle esistenze), la vita tranquilla, agiata e prevedibile; contemporaneamente ne disprezzava i codici, e si concesse di osservare lo straniamento di chi si muove con agio nella gabbia delle convenzioni finchè la trova magicamente aperta e ha l'occasione di scappare.
Sono racconti fatti questi soprattutto di incontri, in un mondo reale o immaginario, casuali, cercati o solo sognati, tra persone presenti e assenti, tra destini che -per quanto lontani, perfino di sconosciuti- si influenzano e cambiano le vite altrui.
Una vena surreale pervade le vicende dando una sfumatura più decisa al dramma ("Ballata") e accentuando l'ironia ("Le metamorfosi", "Altri tre racconti" e soprattutto "I gioielli dei Cabot", un concentrato dei temi prediletti dall'autore). Il mondo che Cheever descrive è del tutto riconoscibile e identificabile, ma il suo sguardo vede al di là della vita quotidiana le forze che le danno forma, la bellezza e la purezza che convivono con la meschinità e l' ipocrisia. Crea così il nucleo -o uno dei nuclei- della sua narrativa, ovvero una dicotomia continua tra corruzione dell'animo umano e innocenza, tra la bassezza degli istinti e la redenzione della natura.

Come pochissimi altri poi, egli ha saputo e voluto descrivere la felicità, tema che nella letteratura è tabù perchè considerata noiosa e temuta da taluni artisti come la fine delle aspirazioni e della creazione. Lui la raccontava prendendosi gioco dei pessimisti (quelli veri e quelli che ci si atteggiano) e dei pettegoli ("Il baco nella mela"), sapeva darle leggerezza, dignità e desiderabilità.
Altra ambientazione a lui cara fu l'Italia: sono veramente tanti i racconti ambientati nel nostro paese e leggendoli si può intuire come ci percepivano gli anglosassoni che si scontravano con un paese da presente povero (parliamo degli anni 50'. Cheever visse a Roma nel 1957) e dal fastoso passato, straripante di una bellezza naturale accecante e sensuale che poteva atterrire. I comportamenti curiosi dei nobili decaduti, il pragmatismo sconcertante delle cameriere provenienti da poveri paesi di montagna, la passione liberamente espressa e alla quale noi diamo un valore assoluto, anziché nasconderla e provarne vergogna, avevano un fascino potente e toccavano forse le corde più profonde dell'animo dello scrittore, che sembrava attratto e sconvolto (di nuovo la duplicità e l'ambiguità) da un luogo a volte incomprensibile.
La prosa di Cheever è leggera e il suo stile profondo e originale . L'analisi dei comportamenti imani e l'umorismo lo avvicinano a volte ai racconti di Shirley Jackson, anche lei capace di indicarci i lati oscuri della vita quotidiana di cui siamo segretamente consapevoli (penso alla raccolta "Demoni Amanti"). Le sue storie sono sentite più che pensate, e sono (forse più di quanto lui stesso intendesse) lo specchio fedele dei suoi turbamenti, dolori, aspirazioni. Ciò che resta al lettore è la sensazione che la vita possa avere sempre qualcosa in serbo per gli uomini, che al di là di ciò che vedono gli occhi ci sia una bellezza che non ha nome ma è ovunque.

Il volume è aperto da una bella prefazione di Andrea Bajani e chiuso da una postfaszione di Adelaide Cioni, una delle traduttrici. Devo aggiungere una piccola critica: la copertina di un volume così imponente (e che quindi viene manipolato molto), non essendo in carta patinata e plastificata tende a rovinarsi facilmente. Sono consapevole del coraggioso sforzo economico di Feltrinelli per far conoscere l'opera di John Cheever, ma forse qualcosina in più quest'edizione meritava. In ogni caso, un libro da avere.

(John Cheever "I racconti" 2012, Le Comete Feltrinelli)




mercoledì 30 luglio 2014

Letture radiofoniche

Per gli amanti degli audiolibri segnalo oggi il programma di Radio3 Rai "Ad alta voce", che propone letture integrali di romanzi. In occasione dell'anniversario dello scoppio della Prima Guerra Mondiale quest'estate vengono proposti libri che raccontano quel conflitto. Oggi si conclude la lettura di "Un anno sull'altipiano" di Emilio Lussu fatta (ottimamente, come siamo abituati) da Marco Paolini. Inizia domani "Niente di nuovo sul fronte occidentale", di Eric Maria Remarque, letto da Elia Shilton.
Alla pagina del programma (www.adaltavoce.rai.it) potete trovare i podcast delle letture passate, ivi compresa quella che si sta per concludere e che vi consiglio.

venerdì 18 luglio 2014

Mentre i mortali comprano: George Saunders, "Nel Paese della Persuasione"

Quando negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso si iniziò a parlare di consumismo, potere degli oggetti, bisogni indotti e pubblicità, forse nessuno era in grado di prevedere a che punto si sarebbe spinta la faccenda. All'inizio perlomeno se ne parlava, gli intellettuali come Pasolini analizzarono ciò che stava succedendo e lanciarono un grido di allarme per quanto sarebbe potuto accadere. Alcuni scrittori di fantascienza (Pohl e Kornbluth, Orwell) ancora prima ci avevano messo in guardia, ma è stato tutto inutile. Lentamente (ma neanche tanto) e inesorabilmente l'ideologia del commercio come forma suprema di libertà ha preso il sopravvento. Le nuove generazioni non hanno un metro di paragone, così non c'è più limite potenziale al potere della pubblicità e del liberismo.
George Saunders mette in scena in questi racconti un mondo in cui il passo successivo al presente è ormai compiuto: il mercato e tutti i suoi annessi sono diventati la forza motrice dell'esistenza e la pubblicità ha assunto un valore evangelico. Le vite dei personaggi sono scandite dai ritmi degli spot, le situazioni che si trovano a vivere sono tipicamente televisive e tutto è giustificabile con l'obiettivo della vendita, e chi non segue l'onda ha vita dura.
Ecco dunque una mamma che restituisce una maschera che applicata sul viso di un neonato simula dei discorsi che sembrano provenire dal piccolo, venire cortesemente ma fermamente redarguita da un dipendente della ditta produttrice che le racconta quanto sia più interessante un neonato parlante invece di un banale bambino che emette versetti senza senso; un nonno costretto a subire centinaia di messaggi pubblicitari attraverso tutti i canali sensoriali per amore del suo nipotino; una coppia cresciuta in una struttura che si occupa di testare nuovi prodotti che si separa allorchè uno dei due decide che il mondo di fuori è più interessante anche se povero e miserabile. E questo è ancora niente. Procedendo nella lettura i racconti diventano via via più surreali, più claustrofobici e spietati finchè il sistema del libero commercio è diventato l'elemento primario e fondante della vita, il suo solo scopo, vero ideale, l'unico fattore che supera divisioni di genere, di età, di formazione, di religione, di opinione politica. In una parola DIO. “Brad Carrigan, Americano” vive in un reality show e la sua vita è alla totale mercé degli sceneggiatori televisivi, delle risate registrate, degli indici d'ascolto. Solo accettando come normale una realtà totalmente fasulla e rifiutando qualunque scrupolo morale può continuare a vivere agiatamente con l'amore di sua moglie, tra una sigletta e l'altra. Anzi, solo così può continuare a vivere. Perchè se vendere è l'unica azione nobile, se la nuova Bibbia è la pubblicità, qualunque considerazione morale diventa bestemmia. Così cresce un egoismo radicale che diventa virtù, perchè in fondo non è colpa nostra, non ci possiamo fare niente e dobbiamo prima pensare alla felicità di chi ci è vicino. Chi cerca di obiettare a questo sistema viene deriso, escluso, umiliato, annichilito con tutta la violenza possibile.
Vivere nel Paese della Persuasione è decisamente mostruoso, eppure si tratta di un luogo che ricorda da vicino non solo agli Stati Uniti, ma a tutto il mondo occidentale, occupato a vendere senza curarsi ormai se c'è qualcuno che comprerà e a diffondere la propria religione commerciale; un paese in cui i vincenti sono coloro che si adeguano al sistema per entrare a farne parte annullando qualunque moralità.
Dietro alla maschera del nostro benessere e del nostro vivere senza pensieri, delle giustificazioni che ci diamo Saunders ci mostra l'abisso in cui sono precipitate le nostre anime. Lo fa con una scrittura abile, capace di narrare il flusso continuo di immagini catodiche che invadono l'etere, gli occhi e i cervelli saturandoli, e con umorismo acido e surreale che ci rende più facile guardare oltre l'orlo del precipizio, anche se non meno doloroso.


(George Saunders “Nel Paese della Persuasione” 2010 Minimum Fax)

domenica 8 giugno 2014

Progetto Gutenberg

Vi segnalo "Project Gutenberg", un sito che rende disponibili gratuitamente molti ebook, in diversi formati e anche in testo semplice, che potete leggere ed eventualmente stampare se, come me, vedete l'ebook reader come un oggetto del demonio...
Trovate il sito QUI

domenica 1 giugno 2014

Letture in corso

John Cheever
Mi rendo conto che dallo scorso gennaio non pubblico una recensione su questo blog. Il motivo non sono gli impegni, pur tanti, ma la lettura. Mi sto infatti cimentando in due imprese piuttosto corpose. Proprio a gennaio ho iniziato a leggere "Il Petalo Cremisi e il Bianco", di Michel Faber, un'appassionante cavalcata nella Londra vittoriana che -pur nella perfezione della ricostruzione di paesaggi, usi, società e bigottismo- proprio verso quel mondo è anche molto ironica. Da ragazzina, quando scoprii Oscar Wilde, Kipling, Stevenson, Conan Doyle, vedevo l'800 inglese come un'epoca avventurosa e favolistica. Questo libro cauterizza le mie fantasie infantili e mostra come realmente doveva essere la vita. C'è però un problema, il libro non è mio ma del Pizza, noto per la sua maniacalità nella scelta di volumi perfetti senza graffi in copertina o minuscole orecchiette nelle pagine. Ovvio quindi che non mi porti appresso Il Petalo in metrò e a scuola. Al suo posto mi accompagna l'altrettanto enorme volume di racconti di John Cheever edito da Feltrinelli. Una raccolta veramente fantastica, affascinante, il mio primo incontro con questo scrittore estremamente ironico e capace, che descrive l'America e gli americani con tratti leggeri, a volte quasi impalpabili, ma che restituiscono al lettore un'immagine limpida. Non so quale dei due libri finirò per primo, in ogni caso scrivere le recensioni di questi libri sarà appassionante.
Michel Faber

mercoledì 30 aprile 2014

Salone del Libro di Torino

Non ci sono mai stata, ma forse quest'anno è la volta buona...speriamo!
Qui trovate tutte le informazioni su Salone del Libro 2014 . Magari ci si vede là...

venerdì 25 aprile 2014

Poroporoaki

Continua l'epidemia di chiusure tra le piccole librerie di Milano, condannate dalla crisi economica. A giugno toccherà all'Azalai di via Gian Giacomo Mora, specializzata in libri provenienti da culture non occidentali. Quando aprì nel 1994 in Italia il grande pubblico conosceva poco o pochissimo della letteratura di Cina, Giappone, Africa, e quello che era disponibile di India e Sud America era poco e spesso veicolato dal successo nei paesi che avevano colonizzato quei luoghi (Salman Rushdie, Garcia Marquez, Isabelle Allende). Per chi ama viaggiare e conoscere culture altre questa libreria era un'oasi per recuperare ciò che allora era introvabile, ed è grazie anche alla sua opera che oggi la produzione non europea e non nord americana è uscita (in parte) dall'angolo dell'esotico e della curiosità per affermarsi anche da noi come letteratura. Ormai troviamo e acquistiamo i libri di Murakami Haruki, Amitav Ghosh, Roberto Bolano in tutte le grandi librerie; le case editrici pubblicano autori provenienti da culture diversissime con ottime traduzioni; la consapevolezza verso le culture straniere sta crescendo, ma senza luoghi come Azalai probabilmente non ci saremmo arrivati. E se è vero -come ricordava una delle due fondatrici qualche giorno fa a Radio Popolare- che proprio per questa diffusione e per la possibilità di acquisto di libri online il ruolo della libreria è in parte esaurito, è altrettanto vero che nei grandi negozi e sui siti troviamo solo i titoli più noti, destinati dagli editori alle grandi vendite (e talvolta addomesticati al nostro gusto), mentre rimangono tagliati fuori i piccoli libri, tradotti magari da minuscole case editrici, che spesso sono i più belli e genuini, e
che possono invece trovare spazio in una piccola libreria.

La scoperta delle letterature non occidentali è appena iniziata e sarebbe un peccato fermarsi alla superficie. Speriamo che quest'esperienza non vada persa e si trasformi in qualcosa di nuovo in grado di proseguire il percorso, anche se in modo diverso da come è stato finora.

venerdì 31 gennaio 2014

Pulp Science Fiction: Fredric Brown, "Assurdo Universo"

A volte capita di leggere un libro e non rimanerne soddisfatti: apparentemente tutto funziona, dalla trama, alla costruzione della vicenda, al finale, però manca qualcosa. In questi casi -specialmente se si tratta di autori importanti- a volte resta il dubbio di essersi lasciati sfuggire qualcosa, di non aver afferrato il significato profondo della storia, per tonteria o per ignoranza. E' così che mi sono sentita concludendo “Assurdo Universo”.
Di Fredric Brown avevo letto con grande sollazzo “Marziani andate a casa!” e mi aspettavo una storia altrettanto scoppiettante e divertente. Questo libro è però molto diverso: mentre nel romanzo del 1955 il nucleo generante della storia è l'idea di un'invasione di piccoli alieni dispettosi e ficcanaso e delle conseguenze sul sistema di vita terrestre, in questo del 1948 il disegno è molto più ampio. Potremmo quasi parlare di “fantascienza filologica”, in quanto tutti i temi classici che sono stati sviluppati dalla sci-fi nei decenni successivi si trovano in queste pagine: mostri alieni che attaccano la terra, la conquista dello spazio, mondi paralleli, eccetera, eccetera. Non è un caso che il protagonista sia il direttore di una rivista di racconti di fantascienza, Keith Winton, conosciuto dai suoi lettori come L'uomo dei razzi. Egli, ospite del suo capo per il fine settimana, si trova nel giardino della grande villa di Catskill ad aspettare di vedere il lampo che segnerà l'arrivo di un missile terrestre sulla superficie della Luna. Un momento è lì a guardare il cielo e subito dopo si trova steso a terra. Non sa dove si trova (la casa del suo capo non è più lì) né come abbia fatto ad arrivare in quel luogo. Keith ritiene di essere ancora nel suo mondo, ma nonostante la somiglianza -non tarderà a scoprirlo- questo è decisamente un'altra cosa: i dollari sono fuori legge, per le strade passeggiano mostri viola alti più di due metri e il nome dell'editore della sua rivista non si trova sull'elenco telefonico...Per Keith è l'inizio di un'Odissea alla scoperta di una Terra sconosciuta e alla ricerca di un modo per tornare da dove è venuto, prima cercando di vivere una vita simile alla sua e poi, quando il tentativo fallisce, prendendo una strada che non si sarebbe aspettato di percorrere. Partendo dal ritmo sonnolento delle prime pagine di introduzione e poi di stupore del protagonista l'azione diventa più veloce man mano che si penetra nella logica della realtà che suo malgrado lo ospita, per accelerare definitivamente nel finale. Le invenzioni che mette in atto Brown per costruire la New York alternativa in cui precipita il nostro eroe sono brillanti, creano un meccanismo delicato e perfettamente funzionante in cui ogni cosa ha una sua spiegazione; gli basta poco per stravolgere il mondo come lo conosciamo pur mantenendone la stessa apparenza in superficie. La realtà altro non è se non una produzione della nostra percezione di essa e dei nostri pensieri, e come questi sono infiniti, così lo sono le realtà possibili. Il doppio finale è in senso letterario una vera ciliegina, delle due conclusioni una la conosceremo, mentre l'altra rimarrà ignota .
I personaggi a mio avviso rientrano in una serie di stereotipi e risultano un po' piatti. Keith Winton è simpatico, ma nonostante il cambiamento che subisce nel corso del libro non resta particolarmente impresso; il suo innamoramento per una collega (elemento che percorre tutto il libro fino alla fine), è pretestuoso, serve a spronarlo ma è poco credibile. Non ci sono a fronte di situazioni forti personaggi altrettanto interessanti. Forse il migliore è Mekki, un cervello meccanico che incarna l'onniscenza del narratore. Ma anche questo apparente difetto può essere ricondotto a un gioco filologico-letterario: Brown era un autore pulp (genere basato su molta azione, in apparenza poco pensiero e avaro di introspezione psicologica), ha scritto un romanzo in stile pulp, il suo personaggio è un redattore di riviste pulp, che si muove in un mondo pulp, un gioco di specchi che riproducono la stessa immagine all'infinito.
“Assurdo Universo” non è quello che potrebbe sembrare, e buona parte della sua originalità sta in questo involucro di cartapesta colorata che protegge un contenuto di lusso.
Anche se io non l'ho goduto in modo particolare, quale che sia il motivo non vi sconsiglio affatto la lettura, che anzi, per tanti intenditori ed amanti di Fredric Brown è stata folgorante. Poi, se volete, fatemi sapere che ne pensate.


(Fredric Brown “Assurdo Universo” Urania Collezione n.16, Mondadori 2004)

domenica 26 gennaio 2014

Fiori di carta: Kurt Vonnegut "Guarda l'Uccellino"

Andrew Wyett "View from the sea"
Dopo la morte di Kurt Vonnegut sono stati pubblicati tre libri di racconti inediti. Il primo, “Ricordando l'Apocalisse” (Feltrinelli 2008) era forse quello con l'idea più forte e verteva sui temi che lo resero famoso, la guerra e la sua insensatezza, la violenza e la natura dell'uomo. I racconti, secondo l'introduzione del figlio Mark, curatore del volume, erano senza data. Il successivo “Baci da 100 dollari” (ISBN 2011) raccoglieva invece storie pubblicate da diverse riviste all'inizio della carriera di Vonnegut negli anni cinquanta. Questo libro (che con Vonnegutiana tempistica è stato pubblicato per terzo mentre è del 2009) completa questo cerchio narrativo e temporale, presentandoci una serie di lavori rifiutati dalle stesse riviste.
Come lui stesso scrive nella lettera a Walter J. Miller che apre il volume, ciò che Kurt cercava in quel momento era di piacere al suo agente letterario. Che questa fosse o meno la realtà, la sua voce si sente in queste storie già forte e chiara. Le situazioni sono semplici, a volte addirittura banali, eppure Vonnegut riesce a farcele vedere da una prospettiva sorprendente e a trarne eventi che fanno da cardine nella vita dei personaggi. I racconti si sviluppano quasi da soli portando a finali non sempre a sorpresa. Sono quasi favole, in cui gli eroi sono persone per bene, oneste, che rappresentano le doti e le qualità dell'uomo e della donna medi. Ecco allora Ellen Bowers, la casalinga protagonista del primo racconto “Confido”, alle prese con un'invenzione del marito o Francine Pefko, la nuova segretaria di Fuzz Littler che col suo ottimismo mostrerà il lato rosa della vita al suo ingrigito capo. E ancora Elsie Strang Morgan, scrittrice per caso che rifiuta il successo e la rivoluzione che porta nella sua vita privata o i coniugi Elliot, re e regina buoni e onesti precipitati in un diabolico tranello ad opera di terribili maghi cattivi (i poliziotti corrotti della città di Ilium), ma che verranno salvati dalla loro fata buona.
Questa scelta dei protagonisti e delle vicende, calate nella quotidianità e lontane anni luce dalle atmosfere dei libri che verranno, concluse da finali non eclatanti ma netti e a volte dolcemente consolatori, è un inno alla felicità perduta di Vonnegut stesso. Egli, orfano della madre e giovanissimo reduce della Seconda Guerra Mondiale scrive di quell'ingenuità, quella normalità, quella disperata fiducia nel futuro e nell'America che lui e milioni di altri giovani reduci hanno perduto per sempre. Così, non è ottimismo facilone quello che sprizzano questi personaggi, è nostalgia per un mondo ideale in cui prima si poteva credere, ma che dopo la Seconda Guerra Mondiale diventa solo illusione. Quando in “Gridalo dai tetti” Elsie Strang Morgan dice: “Voglio le cose com'erano e come non potranno essere mai più. Voglio essere ancora una piccola donna di casa dolce, timida e sciocca.” è in realtà Vonnegut a parlare, a chiedere che gli sia restituita l'innocenza. E in quest'ottica anche “Formiche pietrificate”, racconto quasi fantascientifico ambientato in
un'improbabile Unione Sovietica non incarna banalmente il timore del pericolo rosso degli Stati Uniti negli anni cinquanta, ma è un monito e un'amara constatazione che vale per tutti ( a riprova, i nomi dei fratelli protagonisti possono essere letti sia all'Americana che alla Russa).
“Ciao Red” è la storia di un ritorno, proprio come quello di Kurt dalla guerra, ritorno ad una città non amata alla ricerca di una rivincita; costruito sulla struttura della tragedia greca, si conclude inaspettatamente con un gesto simbolico e perfetto nell'economia della narrazione. “Il re e la regina dell'universo”, narra il passaggio dal mondo dell'infanzia a quello dell'età adulta di due giovani rampolli dell'alta società, la presa di coscienza che il mondo è molto diverso da come pensavano, che c'è anche la sofferenza, ma con essa scoprono anche l'ipocrisia che li circonda e il vero amore. Forse è l'unico racconto veramente ottimista della raccolta, in cui l'autore cerca di convincersi che le esperienze dolorose da lui vissute non siano state del tutto inutili.
E' sempre difficile separare Vonnegut dalla sua opera, e ancora di più da questi racconti che con la loro struttura leggera e lo stile scorrevole si leggono in un fiato e lasciano trasparire chiaramente l'uomo alla macchina da scrivere. “Guarda l'uccellino” è un buon libro per scoprire l'opera dello scrittore di Indianapolis anche se è diversissimo dalla sua produzione successiva, che lo vedrà rifugiarsi nei mondi alternativi e del paradosso e diventare -pur conservando il suo meraviglioso umorismo-sempre più amaro e disilluso. Chi invece lo conosce sarà contento di incontrarlo ancora una volta, come Billy Pilgrim, in un altro tempo della sua vita.
Resta da dire che forse un autore del genere meriterebbe da parte di un editore come Feltrinelli almeno due righe di introduzione, magari ad opera del traduttore, il sempre bravo Vincenzo Mantovani.
(Kurt Vonnegut “Guarda l'uccellino” 2012, Feltrinelli)



sabato 11 gennaio 2014

Kurt

Ogni tanto fa piacere rivedere le foto di un vecchio amico. Ci manchi Kurt.



domenica 5 gennaio 2014

Vetrocemento: J.D. Ballard, "Il condominio"

Così dolce, così innocente...James Ballard bambino
L'approccio alla fantascienza di James Ballard mi ricorda il film “Alphaville” di Godard: ambientazioni quotidiane o comunque plausibili in cui si svolgono eventi incredibili. Nessuna super astronave e nessun mostro spaziale, ma situazioni e reazioni dei personaggi estremizzate al massimo. Il risultato, almeno in questo libro, è un'atmosfera di gelido iper-realismo in cui il verosimile è ingigantito fino a non essere più riconoscibile . “Il condominio” può per certi versi essere ricondotto a “Il signore delle mosche” di William Golding o “L'angelo sterminatore” di Bunùel: come queste opere si prefigge di dimostrare quale sia la natura profonda degli uomini, che in condizioni estreme e in assenza di un controllo sociale emerge facendo evaporare velocemente l'effimero travestimento delle buone maniere e delle convenzioni. Nel caso del premio Nobel Golding l'ambiente era un'isola deserta su cui approdava un gruppo di bambini naufraghi, allievi di una scuola esclusiva (quindi privi solo di parte delle strutture che condizionano gli adulti, comunque più vicini alla condizione primordiale che si cercava); il regista spagnolo immaginò un appartamento in cui un gruppo di persone adulte era inspiegabilmente prigioniero; qui il luogo dell'esperimento è qualcosa che incarna in qualche modo la straniazione e la familiarità degli altri due, trattandosi di un grattacielo di quaranta piani in cui la vita può essere quasi completamente autonoma dal mondo esterno: non solo gli appartamenti dei residenti, ma un centro commerciale, piscine, ristoranti e palestre, tutto quanto necessita -a parte, non a caso, un ospedale e una stazione di polizia- è contenuto nelle altissime mura dell'edificio. I suoi abitanti si dispongono a seconda del reddito e del tipo di lavoro a partire dai primi venti piani (dove si trovano le case più economiche) a salire, ed è subito evidente la prima separazione, la più classica: in basso stanno operatori televisivi, hostess di volo e casalinghe della media borghesia; più su troviamo docenti universitari, tantissimi analisti finanziari, gioiellieri, chirurghi estetici e in cima, al piano più alto, uno degli ideatori del palazzo, l'architetto Royal, reduce da un terribile incidente stradale. Il primo personaggio che incontriamo è però Robert Laing, insegnante di Fisiologia, abitante della fascia intermedia. Come appartenente ad una classe sociale medio alta, egli è abituato a considerare sé stesso al di fuori delle competizioni e dei contrasti di chi abita sopra e sotto di lui e gode di un punto di osservazione ideale. E' lui nella prima pagina del romanzo a constatare come gli eventi nel gigantesco palazzo abbiano cominciato da subito e senza un motivo scatenante a scivolare lentamente verso un baratro senza fondo. In poche pagine si passa infatti dai cordiali e affettati cocktail party durante i quali Laing conosce le inquiline del palazzo e valuta la possibilità di avere delle relazioni con loro, ai dispetti maligni tra piani che coinvolgono il danneggiamento di macchine, il furto, la devastazione e arrivano l'omicidio. E' subito chiaro che la situazione evolverà lasciando emergere sempre più decisamente nei condomini l'inclinazione umana verso la distruzione e l'autodistruzione, in un viaggio a ritroso attraverso gli stadi della civilizzazione fino agli inizi, quando i nostri lontanissimi antenati avevano appena conquistata la posizione eretta e vivevano nelle caverne, nel perpetuo timore di essere attaccati, ma altrettanto pronti a fare lo stesso con chiunque. E' qualcosa che c'è sempre stato dentro di loro, ineludibile, inarrestabile, e ci si abbandonano senza pentimento. Il palazzo mostruoso diventa un'entità a sé stante, il centro in cui si consumano delitti di ogni genere che attrae a sé i suoi abitanti fino a quando questi non sono più in grado di uscirne, ormai assuefatti alla sua realtà. A volte si ha quasi l'impressione che sia la costruzione stessa ad indurre la paranoia e a pilotare le azioni di chi la abita, inquilini e palazzo diventano un tutt'uno indivisibile. Da Laing il punto di vista si sposta all'architetto Royal e all'operatore televisivo Wilder, ognuno alle prese con la dissoluzione del proprio ambiente, ognuno pronto ad assumere un ruolo nel “Mondo Nuovo” che inesorabilmente sorge.
In questo libro troviamo abbastanza materiale per parecchi corsi di sociologia e antropologia; i comportamenti sempre più brutali e assurdi non hanno sostanzialmente influenza sulla struttura gerarchica di base della società-condominio: ad esempio Wilson, abitante dei piani bassi, riesce a raggiungere il quarantesimo piano, ma solo per essere sopraffatto, e lo stesso Laing rimarrà un uomo medio, intento a conservare il proprio piccolo territorio. L'unica vera rivelazione (ma sarà poi così?) è nel gruppo dei nuovi padroni, della stessa classe alto borghese ma donne, mentre più giù il genere perde qualsiasi volontà e diventa docile e sottomessa preda degli uomini. Un elemento misogino disturbante corre in queste le pagine ed è intuibile anche prima che la violenza si scateni. Nessuno dei “protagonisti” è dotato di una vera personalità, sembrano seguire dei binari, come se quello che vivono fosse stato ampiamente previsto e tuttavia non si potesse far nulla per evitarlo. Caratteristica questa che aggiunge una nota ulteriore di freddezza alla penna algida e chirurgica di Ballard: egli è un semplice osservatore, scruta attraverso un microscopio la vita di microrganismi su un vetrino e prende appunti, senza emozione e senza un briciolo di umorismo. Forse anche a questo dobbiamo la quasi assoluta mancanza di dialoghi, che pone il lettore di fronte a blocchi di testo infiniti dai quali non emerge umanamente nulla se non l'orrore dei fatti. E' il narratore a fornirci tutte le informazioni che i personaggi non ci danno, aggiungendo una nota di sgradevole quanto involontario didascalismo. A volte vorrebbero dare un minimo di profondità al personaggio, come nel caso dell'antagonismo tra Wilson e Royal che simbolizza esplicitamente quello del primo con suo padre. Il fatto è che nell'economia del racconto finisce per essere un tentativo maldestro e inutile, visto che nessuno sembra avere alcuna reale emozione (e ci mancherebbe) che lo porti a fare quello che fa. I meriti di lucidissima analisi dei meccanismi sociali di questo romanzo sono indubbi e lo stile di James Ballard ha una sua precisa filosofia coerente e originale nell'ambito della letteratura, soprattutto di fantascienza. Non vi nascondo però che la sera, pensando che “Il condominio” mi aspettava sul comodino accanto al letto non ero proprio al settimo cielo, e concluderne la lettura è stato un vero sollievo.


(J.D. Ballard “Il condominio”, Universale Economica Feltrinelli 2012)

sabato 4 gennaio 2014

Dal buco della serratura: "Due Storie Sporche" Alan Bennett

Se fino agli anni sessanta gli inglesi avevano la nomea di bacchettoni terrorizzati dal sesso, dagli anni ottanta in poi la loro immagine è progressivamente cambiata, e le giovani generazioni si sono dimostrate sessualmente molto più libere, abbastanza spregiudicate e un tantino inconsapevoli delle conseguenze (ricordo il fenomeno delle mamme teen-ager, che in Inghilterra fino a qualche anno fa erano un piccolo esercito e al quale MTV ha anche dedicato un format). Secoli di moralismo (e la religione cristiana) non si cancellano però facilmente, e da questa dicotomia sbocciano le “Due storie sporche” di Alan Bennett, in cui gli atteggiamenti sessuali del popolo d'Albione trovano il loro posto e sono adeguatamente sferzati dall'umorismo brillante di questo scrittore, che ne mette in luce i lati contraddittori e ridicoli.
Nel primo racconto, “Mrs Donanldson ringiovanisce”, incontriamo una non ancora sessantenne piacente vedova che per arrotondare lavora come finta malata in un ospedale a beneficio di praticanti di medicina. Suo compito è fingere sintomi di varia natura o talvolta sostenere in veste di figlia o di moglie la performance di altri colleghi. Oltre a ciò affitta parte della sua casa a studenti universitari. Sarebbe di per sé una situazione abbastanza interessante, ma quando un giorno l'attuale coppia di inquilini si trova nell'impossibilità di pagare l'affitto, le fanno una proposta abbastanza particolare. Mrs Donaldson accetta e le conseguenze saranno imprevedibili. Così una donna ormai ritirata dalla mondanità e che non rimpiange particolarmente la compagnia del marito morto -terribilmente noioso- riscoprirà il sesso in modo inaspettato. Mrs Donaldson è ben consapevole della propria età e constata, nonostante le proposte di un medico e di un collega all'ospedale, la differenza tra il suo corpo di donna matura e quello molto più giovane dei propri inquilini; tuttavia non prova invidia per loro, e riesce a sublimare la sua soddisfazione attraverso quella di altri. Assistiamo ad un confronto tra due generazioni che hanno vissuto e vivono il sesso il maniera totalmente opposta, chi come un dovere coniugale che avrebbe potuto essere più appagante, e chi come un esercizio ginnico ed esibizionistico che a tratti diventa puro spettacolo.
Mr Alan Python Bennett
Più classico e teatrale è l'impianto di “Mrs Forbes non deve sapere”, dove troviamo la borghesissima Mrs Forbes alle prese col matrimonio del figlio Graham con la poco attraente ma ricchissima Betty. Graham è bellissimo, narciso ed egocentrico, e la mamma -nonostante si applichi con caparbia devozione alla perfetta organizzazione dell'evento- non è per niente contenta della scelta di una donna non esteticamente alla sua altezza (anche se c'è da scommettere che nessuna a parte lei lo sarebbe); il pacioso e apparentemente innocuo marito non è invece per niente turbato e sembra anzi divertirsi un mucchio a punzecchiare la consorte non appena se ne presenti l'occasione. Nonostante i timori e le lamentele di Mrs Forbes alla fine tutto funziona a meraviglia, e il matrimonio di Graham e Betty sembra veramente un successo, anche se niente è come appare in superficie. Tutti hanno uno o più segreti in questa storia e sono quelli che la nostra protagonista, perbenista e ottusa, non dovrebbe conoscere. E' come un gioco in cui nessuno sa cosa gli altri sanno, ma tutti pensano che lei, solo lei, non sappia niente. I temi e i personaggi sono in questo racconto più facilmente riconducibili ad altri libri in cui lo scrittore e commediografo sferzava il moralismo borghese, anche se qui l'azione è serratissima e costruita attraverso continue sorprese. I colpi di scena si susseguono fino all'ultima pagina e sembra non esserci fine alle cose non dette. Al contrario del primo racconto, qui il lettore è costantemente informato di ogni cosa e può così osservare con lo stesso divertimento e distacco del narratore l'evolversi della vicenda e apprezzare il rutilante e perfetto ritmo comico.
Bennett ha scelto di osservare il comune senso del pudore e del sesso con gli occhi di due donne agli antipodi, e le interpreta con grande finezza e partecipazione: è facile affezionarsi a Mrs Donaldson, ma nemmeno si riesce a detestare la rigida Mrs Forbes; il punto di vista femminile è di per sé una scelta originale e mette al centro di un aspetto sempre più stereotipato e mercificato della vita due signore non più giovanissime che non rappresentano nella sessualità della società dei consumi un elemento appetibile, dimostrando quanto sotto sotto il moralismo ed i pregiudizi siano tutt'altro che superati. Potete ritrovarvi o meno in questa lettura (anche l'autore potrebbe non essere d'accordo), ma una cosa è certa, vi divertirete tantissimo a leggere questo libro.


(Alan Bennett “Due Storie Sporche” Adelphi, 2011)