venerdì 25 settembre 2009

Darsi fuoco: "Burned Children of America" Autori vari


1. Delle Antologie

Le raccolte di racconti sono sempre una buona occasione per scoprire nuovi narratori; alcune vengono ordinate per tema (da ragazzina ne ho comprate diverse di autori horror), oppure per età del gruppo di scrittori o per periodo storico della stesura, le varianti sono infinite. Sono a volte ingannatrici, perché magari i curatori hanno pescato il racconto più bello ed originale di uno scrittore altrimenti noioso e tu, entusiasmato ed ignavo, corri in libreria, ti compri l’opera omnia, te la porti a casa e infine mediti il suicidio quando ti rendi conto dell’errore commesso. Ma non deve per forza andare così.

2. Burned Children of America

A convincermi a comprare questo libro sono stati il titolo e la targhetta apposta dal libraio che urlava “Da leggere!”. Ho fatto bene, le mie previsioni sono state di gran lunga superate. Tra gli autori di questi racconti ci sono Dave Eggers, Shelley Jackson, A.M. Homes, Stacey, nomi che non a tutti saranno noti o i cui libri avrete notato senza decidervi a comprarli, ma appartengono ad autori giovani e a volte già affermati; i loro lavori potrebbero esservi noti per vie traverse: ad esempio, A.M. Homes è l’autrice de “La sicurezza degli oggetti” da cui qualche anno fa fu tratto l’omonimo film, mentre Jeffrey Eugenides ha scritto "Middlesex" e “Le vergini suicide”, arrivato sul grande schermo ad opera di Sofia Coppola.

Ma sono dettagli, perché in realtà senza alcun biglietto da visita tutti questi autori rivelano (se le promesse fatte dai racconti vengono mantenute) grande bravura e originalità. I racconti sembrano non seguire un tema comune di alcun genere, ma formano un tutt’uno compatto e hanno quasi sempre in comune l’atmosfera straniante, dissociata, disequilibrata in cui la realtà quotidiana si sposta di qualche grado dal proprio consueto asse e finisce per rivelarsi come un mondo nuovo, una dimensione parallela. La prima storia, quella di un ragazzo le cui 10 dita delle mani formate come chiavi aprono altrettante porte della sua vita (“Il protagonista” di Aimee Bender) ci introduce a questo strano microcosmo in cui si scatenano guerre segrete di cui i cittadini soffrono le conseguenze senza conoscerne le ragioni né lo sviluppo, ci sono persone che scrivono lettere a uomini d’affari fingendosi un cane (“Lettere di Steven, un cane, ad alcuni capitani d’industria” di Dave Eggers) e si racconta di centri commerciali favolosi come le città narrate da Marco Polo (“Centri commerciali invisibili” di Ken Kalfus). Gli stili sono diversissimi tra loro, accanto alla narrazione più classica troviamo diverse storie raccontate senza raccontare, come “Test di comprensione” di Myla Goldberg e il già citato Dave Eggers, esperimenti che dimostrano come ogni cosa, ogni forma di scrittura possa diventare rivelazione, nascondere una storia.

I racconti che mi sono piaciuti di più seguono forse uno stile più classico: “Multiproprietà” di Jeffrey Eugenides, il delirante “Una vera bambola” di A.M. Homes, in cui un adolescente si fidanza con la Barbie di sua sorella (ma non solo, imperdibile), “Dovrebbero dargli un nome” di Matthew Klam in cui una giovanissima coppia affronta i giorni successivi ad un aborto, il bellissimo “Gli uomini primitivi” di Stacey Ritcher, uno dei racconti scritti meglio in assoluto, che vede una professoressa di biologia alle prese con i suoi studenti spacciatori. E potrei continuare, finirei probabilmente per riportare fedelmente l’indice completo del volume.

Terminata la lettura ho subito ordinato un libro di Jonatham Lethem e uno di A.M. Homes, sparando un po’ nel mucchio, perché non avrei veramente saputo quale degli scrittori scegliere. Vedremo se le sensazioni saranno confermate. In ogni caso questo libro vale veramente l’acquisto.

(Autori Vari "Burned Children of America" 2oo1 Minimum Fax -a cura di Marco Cassini e Martina Testa)


martedì 22 settembre 2009

Traghetto (appunti di viaggio 2009)

Frank ha fame, andiamo a cercare da mangiare. Sul nostro ponte c’è un self service. Un primo per lui. Un secondo per me, una bottiglietta d’acqua e mezzo litro di vino, 27 euro. In Sardegna ci mangio per giorni con quella cifra.

Ci addentriamo nel labirinto dei tavoli del salone. Gente che non ha prenotato la cabina accasciata sulle sedie; si sono portati dietro cibo già pronto, leggono o fanno cruciverba, ascoltamo l’mp3 o usano il computer. Col mio vassoio colmo (si fa per dire) di costoso cibo mi sento una duchessa in un campo di profughi. Mentre mangiamo un’odiosa musichetta da ascensore si spande mielosa dagli altoparlanti siti sopra le nostre teste, aumentando l’effetto surrealtà.

A un tavolo poco più in là una coppia sta cercando di fare una foto alla propria bambina. Mi sa che sono veneti, almeno a sentirli parlare. Lei, alta, magra e abbronzata è vestita di nero, il genere di donna con la casa perfetta e i vestiti firmati. La bimba, avrà quattro anni, non è molto carina, ha preso da papà. Piagnucola che ha sete, ma la madre vuole a tutti i costi farle la foto e prima non avrà un bel niente. Alla fine la piccola si arrende. Ma i genitori non sono soddisfatti, vogliono pure che sorrida.

-Dài, un bel sorriso per la mamma. Non così, di più!

Sto pensando che già si potrebbero denunciare per maltrattamento di minore. Comunque la mamma ci mette tanto a fare sta foto che la bambina si rompe e comincia a dondolare sulla sedia. -Ferma!- sibila la donna. Ma la piccola se ne frega e stizzita l’altra spegne la macchina fotografica. Le dice qualcosa, le fa capire che è arrabbiata con lei, la bambina si mette a piangere e cerca il papà. Che però è di relativo conforto.

Giro la testa e m’immagino la ragazzina scappare di casa a 14 anni. Nel frattempo la mamma sta facendo una scenata al marito: -Ecco le risposte che mi dai-gli dice sottovoce per non farsi sentire. Lui, un tipo dai capelli rasati che hanno appena iniziato a ricrescere, stempiato e con gli occhi a palla come una specie di ranocchio triste, sembra imbarazzato. Cerco d’immaginarmi di cosa lo stia incolpando: forse la poca ubbidienza della figlia, forse di non stare abbastanza dalla sua parte, lei donna perfetta e figa suprema. Dea in terra e SUA MOGLIE. Che si è sposata perché usava così, ma è chiaro che lui non è alla sua altezza.

Arriva un’altra coppia, praticamente identica a loro, anche se la donna non è altrettanto bella (è più bassa, ha qualche anno in più ma comunque vestita di ricercato nero) e l’uomo è più grosso, più massiccio e più pelato. Si siedono allo stesso tavolo dei genitori e raccontano la passeggiata sul ponte esterno che hanno fatto. La discussione è finita. La prima donna tira fuori un Nintendo Braintrainer, il marito resta imbambolato mentre gli altri si fanno i fatti loro, come se avesse preso una botta in testa; gli occhi globosi fissano tristemente il vuoto. Non ha avuto neanche il tempo di pensare ad una risposta alle accuse che lei gli ha rivolto. Sotto la sua sedia la bambina si rotola sulla moquette impolverata.


lunedì 21 settembre 2009

I luoghi del leggere 3


Per forza e per amore, molti di noi leggono sui mezzi pubblici. Andando al lavoro o a scuola, in treno, metropolitana, tram, autobus, niente è meglio di un libro per isolarsi e magari dimenticarsi di essere in una carrozza affollata e puzzolente, senza riscaldamento o senza aria condizionata, a seconda delle stagioni.
Uscendo di casa la mattina presto, mi sono resa conto che la sofferenza più grande è l'invasione della proprio piccolo spazio vitale da parte di estranei semi addormentati, sgomitanti per raggiungere un posto a sedere, a volte puzzolenti di sudore già alle 8 di mattina. Leggere non "diffonde un delicato profumo" (per citare le pubblicità di deodoranti per interni) ma permette di estendere un minimo il proprio piccolo territorio o almeno limitare l'invasione. Perchè quello che leggi fa eco nella tua testa e solo nella tua.
E' una difesa dal rumore, dalle chiacchere degli altri, dalla questua incessante, dal disagio e dalla rottura di scatole di stare andando a lavorare così presto la mattina. Una specie di esercizio zen di concentrazione. Può capitare di attaccare discorso a proposito della lettura del vicino che c'incuriosisce al punto di chiederne il titolo o essere la stessa che noi abbiamo già concluso e sulla quale avremmo voglia di scambiare qualche parere(possibile che nessuno dei milioni di lettori di Larsson -ad esempio- non abbia sentito il bisogno di scambiare qualche impressione riguardo la sua trilogia?).
Il ritrovare un estraneo a leggere il nostro stesso libro o uno dello stesso autore (ad esempio King), ci fa sentire meno lontani, scatena una piccola empatia, sbreccia la barriera di esasperazione e diffidenza che ci portiamo dietro. Fratelli di lettura.
Chi va in macchina è certo immune dalle invasioni, ma non può certo leggere mentre guida. A meno di essere veramente incosciente.
Lo scorso anno inaugurai una piccola rubrica sul blog Doppiaazione dal titolo "Bookspotting": il gioco consisteva nel prendere nota dei titoli letti sui mezzi pubblici, per scoprire libri nuovi ma anche fare una specie di punto sui più letti. Infatti, credo che il metrò sia un ottimo metro per misurare le vendite librarie.
Inoltre la tentazione di scoprire cosa leggono i tuoi compagni di carrozza è sempre forte: potrebbe succedere che trovi qualcuno che sta leggendo un libro di Roth e magari a sbirciarne le pagine ti mette voglia di procuratelo. Magari hai trovato uno scrittore che ti piacerà da matti. Il mondo è pieno di libri di cui non conosciamo neanche l'esistenza! E molti viaggiano sulle rotaie del tram e del treno, come leoni e leopardi che passeggiano nella savana cittadina.

lunedì 14 settembre 2009

Are You Experienced: "Eden Express" Mark Vonnegut


Nel 2008 a un anno circa dalla morte del meraviglioso Kurt Vonnegut (sic!) cui si deve il titolo di questo blog, Piemme decise di ripubblicare "Eden Express", scritto dal figlio Mark. In pieno delirio Vonneguttiano ed irresistibilmente attratta dal tema centrale del libro, me lo comprai e lo portai con me a Creta.
Diciamolo subito, Mark Vonnegut non è un figlio d'arte qualunque: ha effettivamente ereditato talento dal padre e nella stesura di questo testo non si è certamente accontentato della prima cosa che scriveva. Dunque se siete amanti l'opera del padre non vi pentirete dell'acquisto.

Detto questo, parliamo di un libro che (come quello di Emmanuelle Laborit di cui ho scritto qualche tempo fa) scaturisce da un'esperienza personale molto forte e come molti di questo genere resta al momento unico.
E' infatti il racconto autobiografico di quando Mark Vonnegut tentò di mettere in piedi una comune agricola in British Columbia negli anni 70' e di come diventò pazzo. Proprio così, pazzo.

Anni '70 dunque: dopo alcune esperienze di lavoro "sociale" Mark decide di cambiare completamente vita, da giovane borghese figlio d'intellettuali a contadino. Insegue il sogno di un'esistenza immerso nella natura, completamente indipendente dal mondo esterno, in armonia con tutto e con tutti. Insieme al suo cane ed alla sua ragazza si unisce ad un gruppo di frikkettoni e inzia a costruire una fattoria in un luogo isolato in cui è impossibile arrivare senza una barca.
All'inizio sembra tutto perfetto: i boschi, il lavoro fisico, l'idea di creare qualcosa con le proprie mani. Ben presto però sorgono i primi problemi, il denaro, i rapporti con gli altri frikkettoni...E poi, all'improvviso, qualcosa si rompe e Mark non è più lo stesso.
Inizia un delirio (che poi si scoprirà essere vera e propria schizofrenia), una discesa nel nulla e nella disperazione senza un'apparente ragione. Costretto a lasciare la comune sarà internato in una clinica per malattie mentali.

La lucidità con cui Vonnegut riporta sulla pagina le sensazioni spaventose della perdita della ragione (e chi ha provato la depressione sa almeno in parte di cosa parliamo) è incredibile, abbiamo un'idea assolutamente realistica di quello che ha provato, del suo progressivo distacco dalla realtà, dell'orrore di non essere più sè stesso senza conoscerne il motivo. E' sorprendente come sia riuscito a ricordare così chiaramente sensazioni ed avvenimenti del tutto "immaginari", le trasformazioni delle visioni, i soliloqui allucinanti. Ci scivola dentro come si diventa allegri o tristi ascoltando una canzone, così, quasi senza accorgersene e questo spiazza e inquieta.

E' un racconto sincero e pauroso, anche se in realtà è pure una lettura comica, sognante e vuole esplicitamente dare speranza a coloro che come l'autore si sono trovati catapultati in un attimo in un mondo sconosciuto dentro di loro. Mark è guarito dalla schizofrenia, e nelle pagine finali troviamo una lettera scritta anni dopo ad una ragazza col suo stesso problema, in cui l'incoraggia e dà consigli per affrontare la malattia.
E' inoltre un documento sincero delle disillusioni di coloro che hanno sognato di cambiare il mondo con l'amore. A questo proposito sono indicativi i primi capitoli, dedicati ai rapporti con gli altri componenti della comune, che rivelano una serie di meccanismi sempre presenti nei rapporti umani, anche in quei gruppi che dichiarano la volontà di essere diversi dal resto della società.

Se avete abbastanza fegato, ci sono molti motivi per leggere "Eden Express". Mark Vonnegut ha l'onestà di parlare senza esibizionismi dell'avvenimento forse più drammatico della propria vicenda personale, una capacità di esporsi in tutta la propria debolezza umana di cui non smetto di essere grata a lui e a suo padre.
La malattia mentale è qualcosa che spaventa perchè è incontrollabile, e in apparenza non c'è modo di prevenirla. Non sarà Mark a rassicurarvi o a convincervi del contrario. Non è un libro per struzzi.

("Eden Express" Mark Vonnegut, Piemme 2008)


martedì 8 settembre 2009

Fuori Tempo- "Non è un paese per vecchi", Cormac McCarthy


Bisognerà ringraziare i fratelli Cohen per aver rilanciato col loro film la fama di Cormac McCarthy, senza di loro probabilmente non l’avrei mai scoperto e sarebbe stato un peccato. “Non è un paese per vecchi” è molto più di un semplice thriller, contiene in sé elementi assoluti di Bene e Male.

L’entità narrante principale è lo sceriffo Bell, poliziotto di mezza età, reduce di ben due guerre e testimone di una vicenda che parte da un conflitto a fuoco tra trafficanti di droga nel deserto Texano. Tutti gli uomini coinvolti finiscono morti o gravemente feriti. Sul posto rimangono i soldi e la droga. Il primo ad arrivare dopo la sparatoria è Llewlyn Moss. E’ un tipo tranquillo, un uomo fondamentalmente onesto. E’ la pecorella che si smarrisce. Mai si sarebbe immaginato di trovare due milioni di dollari durante una battuta di caccia. Ma quando succede, se li prende. E ovviamente iniziano i guai: ad inseguirlo ci sono i proprietari della droga, i proprietari del denaro e soprattutto ANTON CHIGUR. Angelo sterminatore, demone in visita in Texas, essere mitologico che obbedisce ad una morale oscura (“La gran parte della gente non crede che possa esistere una persona del genere. (…) Come si fa a sconfiggere qualcosa di cui si rifiuta di ammettere l’esistenza?”) Chigur è inarrestabile, spazza via qualunque ostacolo che si frapponga fra sé ed il suo obiettivo e non fa patti, non ha pietà, non fa concessioni. Al massimo un lancio di moneta. Non ha apparentemente un passato tragico (che potrebbe spiegare la sua spietatezza) e nemmeno si pensa nel futuro, vive unicamente il presente. E’ così matto, così limpido nella sua logica folle, così privo di sentimenti positivi o negativi che non si può evitare di restarne affascinati.

Bell - “l’uomo retto”, incorruttibile e saggio- è impotente (e incapace, purtroppo) di fronte a questa violenza che viene da non si sa dove, a questi criminali che poco somigliano a quelli che è abituato a sbattere in cella e a cui la moglie prepara da mangiare. Non riesce a fermare il massacro di Chigur e dei messicani né a salvare il concittadino Moss; la legge non è sufficiente a far prevalere il bene, tutte le sue certezze s'infrangono di fronte a questa nuova consapevolezza ed egli finisce con l’arrendersi, comprendendo di non essere più in grado di difendere la sua contea dal buio e dalla follia.

Bell e Chigur sono i personaggi meglio delineati del romanzo, per motivi opposti. Il primo racconta lungamente di sé e per la fine del libro sappiamo quasi tutto di lui. Al contrario, del secondo non sappiamo nulla e lo conosciamo quasi unicamente attraverso le sue azioni.

Cormac McCarthy saluta con malinconia un mondo più semplice e comprensibile che scompare e si addentra oltre il confine in una terra nuova e spaventosa come nessuno si poteva immaginare e in cui neanche Dio ci può salvare.

Il film dei Fratelli Cohen rispetta completamente l’asciutta narrazione di McCarthy, tanto minimale da dare grande libertà d’interpretazione, soprattutto visiva. In apparenza non aggiungono niente ai contenuti del romanzo ma la loro opera oltre a mettere in primo piano la figura di Chigur (pur non raccontandone niente di più dello scrittore) fa emergere sottilmente il lato grottesco della storia e dei personaggi, senza comunque ridicolizzarne la durezza e la tragicità.

Sia il libro che il film sono consigliati, leggete o guardate nell’ordine preferito, non rimarrete comunque delusi.

(Cormac McCarthy "Non è un paese per vecchi" Einaudi, 2005)

domenica 6 settembre 2009

Tutti gli anni lo stesso giorno- Racconto

Pubblico un racconto scritto qualche tempo fa. In realtà ne esistono due versioni. Ho optato per questa perchè mi pareva più compiuta. Nulla esclude che in futuro pubblichi anche l'altra, chi lo sa.
Se avete osservazioni sono le benvenute, in forma di commenti o scrivendo a gemellearotelle@gmail.com
Enjoy!

Tutti gli anni lo stesso giorno

“Hey, auguri, buon compleanno!”

Lui si voltò, sorrise timidamente e ringraziò il collega. Ogni anno qualcuno se ne ricordava in ufficio, non sempre la stessa persona. Benché da una parte gli facesse piacere, dall’altra non poteva impedirsi di provare fastidio. E non certo per la bevuta che avrebbe offerto all’ora di pranzo. La sentiva come un’attenzione non richiesta, un’invasione: in fondo se avesse voluto che uno di loro se ne ricordasse avrebbe portato da bere e da mangiare o l’avrebbe detto.

Conoscere la data di nascita di qualcuno equivale a conoscere un mucchio di cose: si può capire il segno zodiacale, dedurre quando la persona in questione ha frequentato le scuole superiori, si può addirittura risalire ai gruppi musicali preferiti durante l’adolescenza. Sì, stupidaggini, ma chi lo sa, magari gli oroscopi hanno ragione e le preferenze musicali possono rivelare cose inaspettate di una persona, cose che neanche lei o lui sa. Forse era un po’ paranoico. In fondo, a chi poteva interessare conoscere queste cose di lui, al di fuori di lui stesso?

A pranzo non mangiò molto, giusto un panino per tenere buona la gastrite. Mentre i colleghi chiacchieravano lui si osservava in una vetrata alle loro spalle cercando di decidere se stava invecchiando bene o no. Praticamente non aveva rughe. Da dietro il tavolo la pancetta non si vedeva e guardandolo in faccia nemmeno il diradamento dei capelli sul retro della testa si notava. Non fossero stati quasi completamente grigi avrebbe potuto essere soddisfatto. Cercò di scacciare il pensiero del decadimento fisico rientrando nella conversazione. In due ore avrebbe avuto di nuovo fame, ma sapeva che quella sera avrebbero festeggiato a casa dei suoi genitori e la madre era già sul piede di guerra con pentole e padelle. Ogni compleanno era una specie di tourneè: festeggiava dai suoi, festeggiava dai suoceri e con gli amici. In uno, al massimo due giorni accumulava materiale sufficiente per mettere fuori posto lo stomaco per qualche settimana.

Staccò con un’ora d’anticipo e si diresse verso casa. A quell’ora c’era ancora poco traffico così ci mise solo venti minuti ad arrivare, invece dei soliti quaranta. Quando entrò dalla porta, il figlio gli venne incontro sventolando un disegno che lo ritraeva, gigantesco sopra casette minuscole da cui usciva del fumo azzurro. Il cielo era una specie di soffitto blu spaccato dai raggi gialli di un sole sorridente. Lo abbracciò e appese il disegno sulla bacheca di sughero in cucina, come faceva tutti gli anni.

Si fece una doccia: rimase sotto l’acqua molto più del solito. Si fissava i piedi e cercava di annullarsi completamente nella sensazione del getto sulla pelle. Perse per un poco la cognizione del tempo. Quando uscì dal bagno la moglie lo aspettava seduta sul loro letto col piccolo ed un regalo avvolto in una carta dorata. Era stata dal parrucchiere, si era anche fatta fare le unghie, che spiccavano come artigli insanguinati sul copriletto color crema.

-L’ha scelto per te- disse indicando il bambino con un movimento della testa. Lui aprì il pacchetto, conteneva una maglia della sua squadra di calcio preferita. Dietro c’erano stampati il suo nome e la sua età. -Il numero è stata una mia idea- disse la moglie- così ti ricorderai quando l’hai ricevuta. -Mettila subito!- strillò il bambino –per la festa!

Guidava con un senso di soddisfazione: in altre circostanze non gli sarebbe stato concesso di uscire indossando una maglia da calciatore a strisce rosse e verdi, magari si sarebbe lasciato convincere da lei a mettere una camicia e una giacca, ma siccome si trattava di un regalo del piccolo, non aveva avuto in coraggio di opporsi. Era immensamente grato di potersi presentare così alla famiglia, perché neanche loro avrebbero osato criticarlo.

A casa dei suoi genitori erano già arrivati tutti. Quando suonò il campanello mamma, papà, fratelli e cognate gli si precipitarono addosso coprendolo di auguri, strette di mano e baci sulle guance.

Con alcuni di loro non andava d’accordo, anzi. C’erano state grosse discussioni specialmente con i fratelli in passato, spalleggiati dalle mogli. Ma sembrava che i dissapori e le polemiche svanissero per le feste comandate. Non avevano mai litigato a Natale, a Capodanno e poteva aspettarsi che seguendo il copione anche stasera tutto sarebbe filato liscio. Ci si adattava, anche se gli sembrava una finzione, pur di non rovinare tutto il lavoro della madre.

Nessuno accennò alla sua maglia, se non per complimentarsi col bambino per la scelta. Dovevano essere stati avvertiti durante uno di quei giri di telefonate che si fanno quando si avvicina il compleanno di qualcuno e le persone a te più vicine, che più ti dovrebbero conoscere, non riescono a mettere insieme un’idea originale di cosa prenderti.

Aprì altri regali. Due libri, una camicia, una bottiglia di liquore, un paio di cd. Qualcosa corrispondeva ai suoi gusti, però notò come fossero tutti espressione degli interessi dei festeggianti, più che del festeggiato. Se li avesse trovati sul tavolo, invece che averli ricevuti in mano, aprendoli avrebbe capito comunque da chi provenissero. Mettere un pezzo di noi nei regali per gli altri è quasi inevitabile, pensò. Forse è il suo bello o forse è un’altra marcatura del territorio.

La cena fu abbondante, come aveva previsto: antipasti, pasta al forno, peperonata, arrosto e un florilegio di contorni di verdura. I suoi piatti preferiti. Il giorno dopo ci sarebbe stato un bis, grazie agli avanzi che quella sera sarebbero stati equamente divisi tra tutti i fratelli.

Poi arrivò la torta. In mezzo ad una selva di candeline ne ardeva una a forma di numero: 41. “41” pensò soffiando sulle candeline come quando era piccolo “Sono 41”.

Verso mezzanotte salirono in macchina, carichi dei regali e degli involti di carta stagnola. Il bambino fu adagiato nel suo seggiolino, si era addormentato da almeno un’ora.

Mentre lui parcheggiava in garage, la moglie lo portò in casa e lo mise a letto. Poi andò in bagno e cominciò a prepararsi per andare a dormire. Quando arrivò lo aspettava sotto le coperte, semi addormentata. Era così stanco che si lavò a malapena i denti. Mancavano poche ore alla sveglia. Si sedette sul coperchio del water e restò un po’ così, cercando di ricordare quand’era stata l’ultima volta che un compleanno era stato qualcosa di divertente, emozionante, quand’era stata l’ultima vera sorpresa della sua vita, quando aveva cominciato a diventare prevedibile giorno dopo giorno, minuto dopo minuto. Si sentiva confuso. Non aveva realizzato la sua nuova età finchè non l’aveva vista sulla torta di compleanno, come se non si sentisse in grado di crederla o di ammetterla sulla sua persona. Spegnere le candeline era stato il momento in cui tutto si era avverato: adesso non poteva farci più niente.

Si alzò e prima di andare in camera si fissò un istante alla luce chiara e tagliente dello specchio sopra il lavandino cercando di non pensare a niente. S’infilò nel letto e spense la luce sul comodino. Fissò il buio di fronte a sé: le tapparelle erano abbassate, neanche i lampioni in strada erano accesi. Forse c’era un guasto. La stanza era completamente buia. Pensò subito al bambino: meno male che aveva la sua piccola luce di sicurezza accesa vicino al letto. Lui però, nella stanza accanto, non vedeva niente.

La moglie si mise a russare lievemente, lui girò la testa, ma non riusciva a vedere nemmeno lei. Allora cercò d’immaginarsi in mezzo a quell’oscurità, inghiottito, annullato, senza una faccia, senza un corpo, senza una voce, solo un respiro e nessuno a vederlo, a cercarlo. S’immaginò di non ricomparire dall’oscurità il mattino dopo, lasciare solo le coperte vuote e nessun ricordo, non dire buongiorno e non ricominciare daccapo fino al prossimo compleanno. Si addormentò, felice.

L.S.P. Giugno 2009