domenica 14 settembre 2014

Aurora Boreale: John Cheever, "I racconti"

Se John Cheever fosse vissuto a Parigi negli anni venti del secolo scorso e avesse fatto parte della "Festa Mobile" di Hemingway e Fitzgerald godrebbe oggi della fama che merita e probabilmente alcuni suoi colleghi considerati giganti della letteratura americana uscirebbero fortemente ridimensionati dal confronto con lui. Nato nel 1912, non ebbe però modo di far parte di quel gruppo, visse invece la crisi economica della famiglia, il conseguente etilismo del padre e la separazione dei genitori. Esperienze che influenzarono le sue ambizioni e che emergono e persistono in tutta la sua produzione. Il suo terreno narrativo non era -e forse mai avrebbe potuto essere- quello dell'eroismo guerresco (anche se partecipò al secondo conflitto mondiale) e delle battute di caccia, bensì la quotidianità della città e della suburbia americana punteggiata di villette bianche con giardino immacolato, in cui le giornate si svolgono tra riunioni di comitati per la moralità, barbeque con gli amici, aperitivi (in questi racconti si beve tantissimo), che ne costituiscono la liscia e immutabile superficie e contemporaneamente ne strutturano la macchinosa, rituale socialità.

I personaggi di queste storie sono ricchi ed ex ricchi caduti in disgrazia, operatori degli ascensori nei palazzi in città, impiegati che prendono il treno per andare a lavorare, casalinghe annoiate o super impegnate nei comitati di cui sopra. Persone imbevute di normalità, sospese in un mondo arido ma di apparente benessere di cui hanno nella maggior parte dei casi accettato i limiti; sono legate alle loro certezze e abitudini dalla consapevolezza che è proprio l'appartenere a un gruppo con regole consolidate a dare loro forza sufficiente per sopportare la vita che quel gruppo struttura. Nella maggior parte dei casi nessuno di loro si sognerebbe di andare contro queste regole. Ma per ognuno arriva un momento in cui la vita deraglia dai consueti binari, aprendo la porta all'imprevisto e offrendo talvolta una scelta inaspettata. Come accade ne "Il marito di campagna" in cui un uomo in viaggio d'affari precipita con l'aereo che lo sta portando a casa. Atterra nei campi, e il protagonista torna dalla sua famiglia in tempo per la cena. Per la moglie e i figli non è successo nulla e lui non riuscirà a raccontare (e poi dimenticherà) l'evento straordinario che ha vissuto ma che lo ha irrimediabilmente, segretamente cambiato. O come capita al protagonista di "Chimera": vessato da una moglie capricciosa e depressa, crea per sé un'esistenza diversa e fantastica che sovrappone a quella reale. Cheever al contrario di Richard Yates -suo contemporaneo, col quale condivideva le ambientazioni e caratteri dei personaggi- sembrava amare i sobborghi borghesi di cui scriveva (lui stesso viveva in apparenza la più normale delle esistenze), la vita tranquilla, agiata e prevedibile; contemporaneamente ne disprezzava i codici, e si concesse di osservare lo straniamento di chi si muove con agio nella gabbia delle convenzioni finchè la trova magicamente aperta e ha l'occasione di scappare.
Sono racconti fatti questi soprattutto di incontri, in un mondo reale o immaginario, casuali, cercati o solo sognati, tra persone presenti e assenti, tra destini che -per quanto lontani, perfino di sconosciuti- si influenzano e cambiano le vite altrui.
Una vena surreale pervade le vicende dando una sfumatura più decisa al dramma ("Ballata") e accentuando l'ironia ("Le metamorfosi", "Altri tre racconti" e soprattutto "I gioielli dei Cabot", un concentrato dei temi prediletti dall'autore). Il mondo che Cheever descrive è del tutto riconoscibile e identificabile, ma il suo sguardo vede al di là della vita quotidiana le forze che le danno forma, la bellezza e la purezza che convivono con la meschinità e l' ipocrisia. Crea così il nucleo -o uno dei nuclei- della sua narrativa, ovvero una dicotomia continua tra corruzione dell'animo umano e innocenza, tra la bassezza degli istinti e la redenzione della natura.

Come pochissimi altri poi, egli ha saputo e voluto descrivere la felicità, tema che nella letteratura è tabù perchè considerata noiosa e temuta da taluni artisti come la fine delle aspirazioni e della creazione. Lui la raccontava prendendosi gioco dei pessimisti (quelli veri e quelli che ci si atteggiano) e dei pettegoli ("Il baco nella mela"), sapeva darle leggerezza, dignità e desiderabilità.
Altra ambientazione a lui cara fu l'Italia: sono veramente tanti i racconti ambientati nel nostro paese e leggendoli si può intuire come ci percepivano gli anglosassoni che si scontravano con un paese da presente povero (parliamo degli anni 50'. Cheever visse a Roma nel 1957) e dal fastoso passato, straripante di una bellezza naturale accecante e sensuale che poteva atterrire. I comportamenti curiosi dei nobili decaduti, il pragmatismo sconcertante delle cameriere provenienti da poveri paesi di montagna, la passione liberamente espressa e alla quale noi diamo un valore assoluto, anziché nasconderla e provarne vergogna, avevano un fascino potente e toccavano forse le corde più profonde dell'animo dello scrittore, che sembrava attratto e sconvolto (di nuovo la duplicità e l'ambiguità) da un luogo a volte incomprensibile.
La prosa di Cheever è leggera e il suo stile profondo e originale . L'analisi dei comportamenti imani e l'umorismo lo avvicinano a volte ai racconti di Shirley Jackson, anche lei capace di indicarci i lati oscuri della vita quotidiana di cui siamo segretamente consapevoli (penso alla raccolta "Demoni Amanti"). Le sue storie sono sentite più che pensate, e sono (forse più di quanto lui stesso intendesse) lo specchio fedele dei suoi turbamenti, dolori, aspirazioni. Ciò che resta al lettore è la sensazione che la vita possa avere sempre qualcosa in serbo per gli uomini, che al di là di ciò che vedono gli occhi ci sia una bellezza che non ha nome ma è ovunque.

Il volume è aperto da una bella prefazione di Andrea Bajani e chiuso da una postfaszione di Adelaide Cioni, una delle traduttrici. Devo aggiungere una piccola critica: la copertina di un volume così imponente (e che quindi viene manipolato molto), non essendo in carta patinata e plastificata tende a rovinarsi facilmente. Sono consapevole del coraggioso sforzo economico di Feltrinelli per far conoscere l'opera di John Cheever, ma forse qualcosina in più quest'edizione meritava. In ogni caso, un libro da avere.

(John Cheever "I racconti" 2012, Le Comete Feltrinelli)