giovedì 25 aprile 2013
Twain and Puppets
Che meraviglia, due delle mie passioni, la letteratura e i burattini si sposano in queste fotografie di un pupazzo gigante di Mark Twain...Bellissimo!
martedì 23 aprile 2013
Giornata Mondiale del Libro!
Oggi è la Giornata Mondiale del Libro, indetta dall'Unesco. Trovate tutte le informazioni relative a questo link .
lunedì 8 aprile 2013
martedì 2 aprile 2013
A piedi nudi nel fango: "The hungry tide", Amitav Ghosh
Quando devo giudicare l'opera di un
artista (scrittore, pittore etc.) non occidentale sono un po' in
difficoltà. Nonostante la globalizzazione e la diffusione degli
stili di vita del mondo occidentale la cultura
profonda di un paese continua fortunatamente ad influenzare le arti
nella loro struttura profonda e solo conoscendola, almeno in parte,
si possono capire determinate strategie e scelte artistiche. La mia
conoscenza dell'India è limitata alla lettura dei “Libri della
Jungla” di Kipling, "A Tiger for Malgudi" di Narayan, “I figli della
mezzanotte” di Rushdie, la frequentazione di qualche spettacolo di
danza e canto. Quindi prendete il mio giudizio con le pinze, potrebbe essermi sfuggito qualcosa di fondamentale.
La scrittura è pedante nella sua precisa descrizione di ogni cosa, dalla stoffa a scacchi che Fokir tiene nella sua barca con vari usi, ai delfini, all'arrivo di un ciclone, alla maniera in cui sono riportati dati scientifici e storici che sfiora il nozionismo puro. Lo scrittore lascia poco o niente all'immaginazione del lettore, che si sente sempre guidato da un accompagnatore pignolo e zelante preoccupato di mostrare tutto ciò che c'è sul programma della gita, imponendo la propria visione. Impossibile sgarrare, non è permesso astrarsi e fantasticare. Vi è anche un'eccessiva auto indulgenza nella conservazione di tanti episodi (e tante pagine) che nulla aggiungono alla storia, ma che allungano un brodo già abbastanza abbondante. Tanto per fare un esempio, la descrizione di come Piya si è procurata il binocolo con cui perlustra il fiume è per il lettor etanto lunga quanto inutile. L'idea di fondo che ogni cosa sia collegata e contribuisca alla realizzazione di un grande quadro è affascinante, ma personalmente ho trovato talvolta oscuri i motivi per i quali alcune informazioni ci vengono fornite.
Amitav Ghosh è diventato molto noto
negli ultimi anni grazie alla trilogia
della Ibis, iniziata con la pubblicazione del corposo
“Mare di papaveri”. Personalmente ho un (deprecabile) pregiudizio
nei confronti dei libri molto lunghi (i "mattoni"), sono intimamente convinta che
per quanto bene possano iniziare, verso la metà della storia
l'ispirazione dello scrittore si appannerà e io mi annoierò. L'esperienza folgorante di un libro corposo com “Le
correzioni”di Johnatan Franzen e le entusiastiche recensioni della trilogia della
Ibis avevano creato in me notevoli aspettative rispetto a “The
hungry tide”. Mi immaginavo immersa in una narrazione affascinante, visionaria, quasi mistica, in cui il fiume diventava un simbolo di vita e di magia.
Il sesto romanzo di Ghosh, tradotto in
Italia col titolo di “Il paese delle maree” è ambientato nel
Sundabaran, nel Golfo del Bengala, dove le maree che si mescolano
all'acqua del fiume creano e modificano continuamente il paesaggio.
Piya è una cetologa i cui genitori sono emigrati dall'India negli
Stati Uniti, ed è arrivata in questa parte del mondo per studiare
l'Orcaella, un delfino di fiume. Incontra su un treno Kanai, un
traduttore di Kolkata, che si sta recando a Lusibari, una delle isole
del Golfo, da una sua anziana zia, la quale ha trovato un taccuino del
defunto marito destinato a lui. Per entrambi i protagonisti le cose
non andranno come avevano inizialmente pensato e si ritroveranno a
Lusibari.
Nonostante abbia riassunto in
pochissime righe la trama, la storia è piuttosto complessa, e dal
primo incontro tra Piya e Kanai inizia a dipanarsi in tutte le
direzioni, sia fisiche che temporali, inglobando le loro vicende
personali, la storia dell'India, le sue complesse tradizioni, le
questioni molto attuali che contrappongono lo sviluppo economico (che
per gran parte della popolazione indiana corrisponde ancora oggi alla
sopravvivenza) e la conservazione dell'ambiente, fino a
considerazioni politiche. I personaggi sono archetipi portatori di
queste contrapposizioni: Piya vuole difendere l'ambiente e gli
animali, ma non ha mai vissuto in India, non ne conosce che in parte
le tradizioni e la cultura e non è consapevole del fatto che per buona parte dei suoi abitanti la natura è spesso un nemico. Kanai
è d'altronde immagine dell'India moderna e rampante che
dell'occidente ha assunto i costumi e sfrutta il lato commerciale,
cercando d'ignorare -pur conoscendoli- i modi di vita tradizionali
dei suoi conterranei rappresentati da Fokir, un pescatore analfabeta,
più giovane di Kanai che rifiuta la sua amicizia e stabilirà invece
un legame profondo con Piya, con la quale si capisce solo a gesti.
Anche Mashima e Nirmal, gli zii di Kanai, portano la contrapposizione
tra la concretezza della vita, anche politica, disposta ad accettare
dei compromessi e l'idealismo (incorruttibile) delle teorie.
Questa ricchezza di temi si riflette nella struttura narrativa stratificata a diversi livelli: su
tutti domina il narratore onnisciente, al quale si affianca per gran
parte del romanzo la narrazione in prima persona del diario di
Nirmal, un lungo flashback sulla storia del Sundabaran in cui sono
inseriti molti versi di Rainer Maria Rilke che forniscono
un'ulteriore lettura degli eventi passati e presenti; Bonbibi,
divinità Hindu delle foreste è invocata più volte, e la sua
battaglia contro il demone Dakkhin Rai raccontata con una recita e
poi con una sorta di poema, cui si aggiungono una corposa quantità
di nozioni di cetologia e geologia. La stessa presenza di Fokir
trasforma l'azione e la prosa: quando lui e Piya sono insieme da soli la
narrazione diventa visiva, quando i personaggi hanno una
lingua comune, naturalmente il racconto passa attraverso discussioni
e digressioni concettuali. Ghosh controlla con abilità questa
quantità consistente di materiali e di tecniche, non lascia capitoli
aperti inutilmente e tira le fila di ogni episodio. Conosce alla
perfezione la teoria del romanzo e si muove senza apparenti
difficoltà attraverso l'architettura immaginifica della sua
creazione. Predilige la narrazione in terza persona e spesso rinuncia
al discorso diretto anche quando sembrerebbe la soluzione più
logica, che contribuirebbe ad alleggerire la narrazione stessa ed a
farci conoscere meglio i personaggi.
In realtà è questo un punto
debole dell'opera: con l'eccezione di Fokir -del quale sappiamo
pochissimo e che pure riusciamo a comprendere- le personalità
dei protagonisti non emergono in modo convincente. Piya e Kanai sono
solo simboli: il loro rapporto, le ferite che portano dal passato, il
modo in cui lui s'innamora di lei sembrano decisi a tavolino; i particolari personali sembrano aggiunti per rendere questo matrimonio combinato digeribile ad un pubblico occidentale. Non è un caso che caso tutte le contrapposizioni illustrate sopra siano incarnate dai poli di genere (uomo-donna), c'è un disegno molto
consapevole.
La scrittura è pedante nella sua precisa descrizione di ogni cosa, dalla stoffa a scacchi che Fokir tiene nella sua barca con vari usi, ai delfini, all'arrivo di un ciclone, alla maniera in cui sono riportati dati scientifici e storici che sfiora il nozionismo puro. Lo scrittore lascia poco o niente all'immaginazione del lettore, che si sente sempre guidato da un accompagnatore pignolo e zelante preoccupato di mostrare tutto ciò che c'è sul programma della gita, imponendo la propria visione. Impossibile sgarrare, non è permesso astrarsi e fantasticare. Vi è anche un'eccessiva auto indulgenza nella conservazione di tanti episodi (e tante pagine) che nulla aggiungono alla storia, ma che allungano un brodo già abbastanza abbondante. Tanto per fare un esempio, la descrizione di come Piya si è procurata il binocolo con cui perlustra il fiume è per il lettor etanto lunga quanto inutile. L'idea di fondo che ogni cosa sia collegata e contribuisca alla realizzazione di un grande quadro è affascinante, ma personalmente ho trovato talvolta oscuri i motivi per i quali alcune informazioni ci vengono fornite.
Non posso dire che il libro non mi sia
piaciuto, ma neanche che mi abbia entusiasmato. In quattrocento
pagine scritte in corpo 10 o 11 il climax e l'anti-climax sono
praticamente assenti: forse anche questa è una strategia culturale,
che rifiuta i picchi e crede nello scorrere continuo degli eventi,
nella continua trasformazione o ancora una volta lo scrittore prende
prepotentemente il timone e ci priva di ogni vera emozione.
L'impressione che ho ricevuto è quella di un autore estremamente
consapevole della propria abilità e delle cose che vuole dire, ma
assorbito com'è dal suo disegno filosofico non riesce o non vuole
arrivare ai sensi, al cuore dei personaggi e delle situazioni.
Perfino la bellezza e la magia del fiume vengono soffocate, lo
scrittore preferisce indagarlo come uno scienziato o come uno
storico, piuttosto che osservarlo come un poeta o un pescatore.
La letteratura non è fatta solo di
testa, ma anche di pancia: di quest'ultima in "The hungry tide" ce n'è ben poca.
(Amitav Ghosh, "The hungry tide", 2005 Mariner Books; edito in Italia come "Il paese delle maree" Neri Pozza Editore)
(Amitav Ghosh, "The hungry tide", 2005 Mariner Books; edito in Italia come "Il paese delle maree" Neri Pozza Editore)
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