lunedì 31 agosto 2009

Hard to find: "The Ice At The Bottom Of The World" Mark Richards




Se cerchi Mark Richard nei siti italiani di vendita di libri, saltano fuori testi di giardinaggio e per lo studio della lingua inglese. Anche consultando un sito Americano devi faticare, però lo trovi. Effettivamente non è che abbia scritto molta narrativa (due raccolte di racconti e un romanzo); adesso poi, si sta dedicando alla scrittura di sceneggiature cinematografiche. Ma se Chuck Palahniuk lo cita in un suo articolo come una specie di maestro, cominci a pensare che non si tratti di un Mr. Nessuno.

L’impressione che si ha dopo qualche ricerca è che Mark Richard sia un specie di guru della letteratura americana contemporanea, conosciuto soprattutto da scrittori ed intellettuali, carismatico e capace d’influenzare altri scrittori, ma relativamente poco noto al grande pubblico.

Solo impressioni. Ma se fosse vero ci sarebbe da chiedersi perché, dato che i protagonisti dei suoi racconti vivono per la quasi totalità ai margini dei margini, nelle periferie di piccole città del sud degli Stati Uniti, più poveri dei neri che vi abitano, costretti a pagarsi l’alloggio con lavori di manutenzione per il padrone di casa. Mangiano quello che capita (un pranzo al fast food è accolto come da noi una cena al Savini), sono quasi sempre persone di poca istruzione e spesso bambini, esposti alla violenza e alla sfortuna. Raccontano la loro storia con lunghi monologhi e la loro lingua è quasi dialettale, con periodi infiniti che se vuoi capirli devi immaginarteli in bocca a qualcuno perché altrimenti resti a chiederti che cavolo significa stà frase? Attraverso questa lingua così complessa e realistica la vita viene rappresentata in modo misterioso, trasognato, come nei racconti dei bambini, che non comprendono tutto quello che vedono ma lo riportano fedelmente rendendolo con la loro ingenuità ancora più agghiacciante, divertente o triste.

E’ il caso di racconti come “Strays” (in cui due fratelli sono affidati alle cure di un certo "zio Trash" mentre il padre cerca di recuperare la madre scappata di casa) o “This is us, excellent” i cui protagonisti sono ragazzini maltrattati che riportano quanto gli accade così come lo percepiscono, senza rilevarne il lato drammatico o perlomeno il lato più drammatico, perché così è la loro normalità. Dalla comicità di “Happiness in the garden of variety”, all’infinita tristezza di “Her favorite story”, “The ice at the bottom of the world”, “On the rope”, Richard dimostra una grande sensibilità e una notevole abilità di narratore e non sorprende che sia stato accostato come genere a Mark Twain.

Un piccolo libro con un grande peso specifico, che francamente trovo strano (per non dire criminale) nessuno si sia deciso ancora a tradurre.

(Mark Richard “The Ice at the bottom of the world” 1991, Anchor Books. Reperibile su Amazon Uk e Amazon.com, oppure provate ad ordinarlo presso una libreria fornita di testi in lingua originale)

domenica 23 agosto 2009

I luoghi del leggere 2




Altra abitudine di casa mia: mio padre è da sempre il primo ad alzarsi la mattina e da sempre mentre fa colazione, legge. Per un uomo maritato con due figlie gemelle, che lavorava dalle 8.30 alle 18,19, 20 di sera, gli spazi di autonomia e isolamento erano importanti quanto esigui. Quella era ed è la sua mezz'ora di pace, il suo bastione contro il logorìo della vita moderna, sette giorni su sette. Durante il week end questo tempo si dilatava a un'ora, spingendosi fino al nostro arrivo in cucina. Poi s'avviava verso il bagno, libero di accendere la radio e far scorrere l'acqua senza svegliare la moglie. Così mi capitava di guardarlo leggere i suoi libri di Follet o di storia della seconda guerra mondiale. Ero curiosa di chiedergli cosa raccontavano quei volumi ma sapevo che in quel momento era come in trance e non potevo disturbarlo. Comunque, le sue risposte minimali non avrebbero aggiunto molto a quello che già apprendevo leggendo la sovracopertina.
Di recente ho iniziato ad imitarlo. Quando ricomincerà la scuola dovrò tornare a lavorare e alzarmi alle sei, sarò impegnata più a coordinare i movimenti piuttosto che a leggere...Il che porta a chiedermi quali siano le letture più adatte all'orario mattutino: Chuck Palahniuk o Kurt Vonnegut per un risveglio a botta, Martin Millar per qualcosa di più delicato tendente al buon umore, Carver per un quieto e malinconico discendere nelle faccende quotidiane. Banana Yoshimoto per una sensazione di leggerezza anche se non necessariamente di allegria...Lansdale, dipende dal libro...E se ogni libro avesse un suo orario ideale di lettura? Libri da alba, da mezzogiorno, da tramonto, da notte...bisognerà che ci pensi.

venerdì 21 agosto 2009

Per Fernanda


Sono stata incerta se scrivere qualcosa su Fernanda Pivano. Detesto il clamore e l'effimero interesse che si crea alla morte di un personaggio pubblico. Improvvisamente tutti sanno chi è e tutti ne parlano come di un santo/santa. Odio il silenzio che segue.
Io stessa ammetto di conoscerla davvero poco, di connetterla mentalmente con la beat generation, Jack Kerouac, e poco altro.
Però lasciarla andare così, senza un saluto mi sembrava veramente brutto, e ingrato. Se oggi ho in mano non solo i libri che lei promosse e tradusse, ma anche quelli di Lansdale, Vonnegut, McCarthy e di tanti grandi autori Americani, se sono tradotti in modo decente, beh, lo devo anche a lei. In un paese refrattario alle novità culturali come questo si rischiava di rimanere all'oscuro di tanta letteratura, di tanto ingegno e bellezza. Ma voi riuscite ad immaginarlo? Io sì, perciò GRAZIE! E buon viaggio.

giovedì 20 agosto 2009

Di cosa parliamo quando parliamo di un bel libro?



Ci sono libri che pur non essendo scritti in modo impeccabile, restano nel cuore e sono oggettivamente capaci di catturarci e restare come tra i più belli che abbiamo letto. Io mi ricordo due di questi libri: il primo è "Il grido del gabbiano" della francese Emmanuelle Laborit, il secondo è "Lo sfidante. Million Dollar Baby" di F.X. Toole.
Nonostante stiano un pò agli antipodi hanno in realtà tante cose in comune, ad esempio una forte connotazione autobiografica: la prima infatti racconta la sua storia di bambina nata sorda profonda e cresciuta in una famiglia di udenti, le sue battaglie per diventare indipendente e per trovare la propria strada nella vita. Toole, un pugile semi professionista avvicinatosi a questo sport in età non più giovanissima, ha invece infuso nei suoi racconti questa esperienza.
Altra coincidenza, più frivola, sta nel fatto che entrambe i libri sono stati toccati dal cinema: Emmanuelle Laborit è attrice (Ha interpretato Marianna Ucrìa in un film tratto dal romanzo di Dacia Maraini) e ora lavora soprattutto in teatro, mentre il libro di Toole è stato l'ispiratore dello splendido "Million Dollar Baby" diretto da Clint Eastwood.
Infine, entrambe gli autori nonostante le rispettive esperienze -non tra le più facili sebbene tanto diverse- non cadono mai nel patetismo e non cercano l'approvazione compatita del pubblico.
Sono opere di due "non scrittori" , persone che probabilmente non si erano mai sognate di scrivere prima di mettersi a farlo, con fatica che possiamo solo immaginare (scrivere è fatica) e che ogni tanto hanno fatto storcere il mio nasino snob, quando leggevo una frase un pò troppo poco lirica o con una costruzione un pò brutta. Eppure credo che gli autori siano arrivati a comunicare in modo profondo la loro passione ed il loro punto di vista.
Si tratta di narrazioni lineari, senza costruzioni complesse o fantasiose invenzioni linguistiche. Non ne hanno bisogno, perchè alla fine è proprio questa la loro forza e non hanno altro scopo che raccontare. Sia Toole che la Laborit quando si sono messi alla macchina da scrivere volevano solo parlare di sè stessi, esporsi, cercare di far conoscere la propria storia.
Ricordo che mentre leggevo "Il grido del gabbiano" riuscivo perfettamente ad immaginare come possa essere vivere in un mondo incomprensibile agli altri, un mondo in cui la comunicazione è totalmente diversa da come l'intendiamo noi udenti. E le pagine di F.X.Toole sono esemplari nel guidarti dentro un mondo sconosciuto ai più come quello della boxe, con i suoi riti, le sue regole ferree, i suoi personaggi.
Questi due libri sono buoni così, anche se dovessero restare unici, con le loro imperfezioni, perchè anche quelle imperfezioni sono parte della loro bellezza e li rendono vivi.

(Emmanuelle Laborit "Il grido del gabbiano" Rizzoli 1995 - F.X. Toole "Lo sfidante - Million Dollar Baby" Garzanti 2001)

martedì 18 agosto 2009

Tornate presto! "Picnic sul ciglio della strada" A. e B. Strugatzki


Non sono un’esperta di fantascienza, però mi piace. Soprattutto quella appartenente alla corrente “umanista” -vale a dire Bradbury,Vonnegut, Wells, Orwell, eccetera- che ha come fine non tanto l’esplorazione del futuro, della tecnologia o dello spazio, quanto il loro effetto sulla società e sull’uomo o la critica al mondo presente. Sicuramente molti autori Russi appartengono a questa corrente: Bulgakov ne è esempio lampante con “Le uova fatali” e “Cuore di cane”, in cui la trama prende spunto da scoperte ed esperimenti scientifici, ma è solo una metafora magica della realtà.

Anche nel romanzo dei fratelli Strugatzki c’è molto più di una bella storia. Non a caso ha ispirato il film “Stalker” di Tarkovsky, anche se il regista ne ha conservato solo l’ossatura e sviluppato in modo autonomo (soprattutto visivamente) gli argomenti che gli stavano a cuore.

Dunque, gli alieni esistono. Si sa perché sono scesi in sei punti diversi del pianeta, tra cui la città industriale di Marmont. Sono venuti e se ne sono andati. Non ci sono stati contatti diretti tra loro e gli umani, ma la loro visita ha lasciato dei segni: innanzitutto rifiuti, oggetti straordinari e misteriosi per gli umani, frutto di una tecnologia avanzatissima. Di questo vanno in caccia gli stalker, uomini desiderosi di buoni guadagni, disposti a rischiare la vita entrando nella “Zona”, il luogo mitico della “Visita”, dove si trovano pericoli sconosciuti ed incomprensibili a cui vengono dati nomi fantasiosi come “tagliole” o “gelatina di strega”.

Redrich Schouart è uno stalker, uno dei migliori. E’ un outsider, un anarchico, refrattario all’autorità, individualista, vuole sempre fare a modo suo. La sua non è una vita facile, anche al di fuori della Zona, perseguitato dalla polizia, sposato e con una figlia da mantenere. Tutte le persone che conosce sono in qualche modo legate alla Zona, che siano altri stalker, o scienziati, o militari. Tutti vogliono quello che si trova là, per denaro e potere e Redrich è il loro mezzo per averli. Pensa di essere libero, ma è solo un mezzo per i fini di altri e senza saperlo s’è messo al servizio del potere più becero. La vita di Redrich è una lenta presa di coscienza del proprio posto nella società, della propria vulnerabilità, della propria prigionia all’interno di un sistema.

Già così le implicazioni politiche sono piuttosto chiare, ma è solo la punta dell’iceberg: i fratelli Strugatzki arrivano molto più a fondo, cercando di sondare i motivi profondi dell’esistenza, ciò che muove l’uomo, ciò che lo porta a voler conoscere il motivo delle cose, perfino il suo rapporto con la divinità. E così fanno soprattutto domande, domande, tanto che anche il romanzo si chiude con una domanda, senza salvazione e senza risoluzione.

Non pensate però che si tratti di un libro barboso o cervellotico, queste sono considerazioni che arrivano dopo aver terminato la lettura. “Pic nic sul ciglio della strada” è un romanzo appassionante, con una vera storia e diversi registri narrativi; Redrich è un personaggio che s’impara ad amare e a sentire vicino, con il suo cinismo e i suoi drammi personali, affine in qualche modo al Montag di “Fahrenheit 451”. E poi c’è la Zona, forse la vera protagonista. C’è sempre lei al fondo di ogni conversazione, anche se non viene nominata: è l’elemento catalizzatore di ogni personaggio, più di un luogo, è una presenza, come una di quelle case stregate dei romanzi d’orrore. Attira e terrorizza sembra essere la vera padrona del gioco, silenziosa e oscura. Come l’anima dell’uomo.

("Picnic sul ciglio della strada" Arkadi e Boris Strugatzki, 2002 Marcos Y Marcos)

venerdì 14 agosto 2009

Merenda a sorpresa: "Abbiamo sempre vissuto nel castello" Shirley Jackson





Mary Katherine Blackwood, la sua bellissima sorella e il vecchio zio Julian vivono nella grande casa di famiglia in cima ad una collina circondata da campi e boschi. Le loro giornate passano allegramente tra passeggiate, lavori nell’orto e in cucina. La casa è grande e bella, frutto del contributo di generazioni di Blackwood; fino a 6 anni fa alloggiava due rami della famiglia. Fino a quando non sono tutti morti avvelenati.

Una parola è troppo e due sono poche (come diceva Peppino De Filippo) per parlare di Shirley Jackson, una scrittrice che pur non prolificissima (ricorreva l'8 agosto l'anniversario della sua morte a soli 48 anni) ha lasciato alcuni dei più straordinari racconti e romanzi horror mai scritti, così particolare, così speciale che il termine stesso "horror", pure accoppiato con “mistero” non riesce a dare l’idea di ciò che vi aspetta sotto la copertina. Non ci sono esseri sovrannaturali né possessioni diaboliche (non qui almeno, né nella bellissima raccolta “Demoni Amanti”), non ci sono manifestazioni occulte. Eppure ce n’è da far tremare i polsi.

Dapprima Shirley vi ipnotizzerà, vi attirerà verso la proprietà dei Blackwood e ve la farà amare: guardate Constance cucinare, ascoltate lo zio Julian parlare del libro che sta scrivendo, giocate col gatto. Seguite Mary Katherine nei luoghi dove ama nascondersi. Poi, pian piano, scivolerete. Non ve ne accorgerete subito, ma succederà e cambiando la luce, ciò che prima vi aveva affascinato lo vedrete in modo diverso e terrificante.

I muri di casa Blackwood si chiuderanno lentamente su di voi, fino a che sarete sicuri di non avere più scampo. Il male ci circonda, è dentro di noi, tutti noi. E’ ineludibile e aspetta solo il momento per rivelarsi e acquisire un’identità, per essere un bambino, avere la faccia di un uomo o di una donna o di tutti e tre, tutti insieme. Emerge lentamente, ma non c’è proprio nulla che si possa fare per fermarlo.

Come scorre un ruscello, così succedono le cose in questo libro, naturalmente, senza costruzioni letterarie complesse, avvolgendo lentamente il lettore in parole che a ben guardare non cambiano, vengono ripetute ossessivamente dall’inizio alla fine, ma chissà come non ci fanno più le stessa impressione quando arriviamo in fondo.

E’ una magia, un sortilegio che questa scrittrice impone sui suoi libri, qualcosa di sottile ed invincibile, che resta dentro.

(Shirley Jackson “Abbiamo sempre vissuto nel castello” 2009 Adelphi –grazie per la riedizione dei libri di questa scrittrice-)

sabato 8 agosto 2009

"Will you please be quiet, please?" Il mondo fuori dalla finestra di Raymond Carver


Quando sono sovraeccitata o nervosa, quando devo disintossicarmi (come in questo periodo da Mr FastandFurios Palahniuk) mi rivolgo a letture più pacate, come Raymond Carver. Mi calma, mi tranquillizza, mi permette di concentrare la mia attenzione sulle cose minime, sui gesti, su quell'ordinario che grazie a lui diventa straordinario.
Questo libro, pubblicato in Italiano come "Vuoi star zitta per favore?" è la sua prima raccolta di racconti ed è già una dichiarazione d'intenti precisa.
Persone, situazioni, luoghi familiari, strade in cui camminiamo tutti i giorni, azioni che compiamo senza neanche accorgerci, descritti da Carver si rivelano come punti di svolta, momenti capitali in cui la vita cambia, per sempre.
Si tratta in certi casi di scoperte surreali e drammatiche (come in "The father"), di un semplice monologo che mostra la natura pettegola del narratore ("The idea"), di episodi minimi o di tragedie che si consumano nella casa accanto. Piccole cose gigantesche. Ci sono anche storie in cui la routine quotidiana si trasforma quasi per caso in una strana avventura, qualcosa che eccita e impaurisce, che porta in un territorio sconosciuto dove non siamo mai entrati solo perchè non ci abbiamo mai pensato ("Are you a doctor?", "Neighbors").
Raymond Carver osserva e ci indica qualcosa che ci siamo persi o che non siamo stati in grado d'intuire; coglie quei sentimenti che durano un istante e poi sembrano svaniti, ma restano per sempre. Dopo averlo letto sicuramente vi troverete ad osservare a vostra volta, a considerare ogni frase, ogni parola, ogni gesto come una rivelazione, una traccia indelebile della nostra e dell'altrui presenza. Può diventare addirittura un'occupazione a tempo pieno, quasi come un esercizio zen.
Da una parte è qualcosa che affascina e ipnotizza; dall'altra inquieta, perchè ci rende vulnerabili, smonta le nostre corazze di cinismo e abitudine. Ci sensibilizza nei confronti di un mondo che ormai per quanto tragico ci è indifferente. Ci obbliga a realizzare che non esistono gesti casuali e senza importanza, tutto ci colpisce -fragili come siamo-, lascia un segno, per quanto invisibile.
Nel suo mondo quello che accade è sufficiente e non c'è bisogno di calcare i toni (era un cultore della lingua e -dice la leggenda-ricontrollava maniacalmente ogni frase per renderla perfetta).

Tutto è chiaro, limpido, leggibile. Non crea buoni o cattivi, non prende le parti di nessuno: il comportamento dei personaggi è registrato senza commenti ed eccessive drammatizzazioni, il suo sguardo non li giudica e proprio per questo rende ancora più evidenti i loro difetti, le loro debolezze, i lati comici e drammatici delle situazioni.
Raymond Carver ricorda quegli attori così bravi che non sembra nemmeno che stiano recitando, che senza fare mirabolanti espressioni ed esagerate interpretazioni riescono a rendere completamente il loro personaggio: sembra veramente che non faccia alcuno sforzo, che si limiti a guardare fuori dalla finestra il mondo che passa. Quasi terapeutico, di questi tempi.

(Raymond Carver "Will you please be quiet, please?" 2003 Vintage Books)

mercoledì 5 agosto 2009

I luoghi del leggere 1

Cosa c'è di meglio che leggere a letto? Io ne ho bisogno, non posso farne a meno. Se vado a dormire e spengo la luce senza aver letto almeno una riga di un libro mi sembra di non aver chiuso degnamente la giornata.
Ricordo che quand'ero piccola mia nonna che soffriva d'insonnia restava sveglia per ore a leggere a letto: vedevo la luce accesa nella sua stanza. Leggeva soprattutto gialli, Edgar Wallace, Agatha Christie. Non le piaceva Nero Wolfe. Io non ho mai letto nessuno dei tre. Però m'immagino che bello doveva essere, nel silenzio della casa addormentata (salvo me), esser soli coi propri libri, nella propria bolla dove tempo e spazio non contavano più, contavano solo le storie.
Quando invece dormi con qualcuno, non c'è solitudine. Per quanto ognuno si legga il suo libro, non sei mai del tutto solo e se l'altro comincia a raccontarti troppo a lungo e troppo spesso cosa sta leggendo lui...beh, può veramente rovinarti il piacere. Anche se a volte può essere bello, come per esempio si è letto lo stesso libro e lo si commenta, si condividono le impressioni.
A volte ci si può attardare a leggere a letto la domenica mattina, e si assapora un gran senso di libertà. Billy Pilgrim e Gordon Pym prendono il potere, chi se ne frega della casa, chi se ne frega del pranzo, c'è tempo.
Conosco gente poi, che ha finto di essere malata per saltare la scuola e rimanere a letto a finire indisturbata il proprio libro. Papà e mamma non ti disturberebbero mai quando hai la febbre o il mal di pancia...Anzi, magari corrono fuori a comprarti un giornaletto o un libro...

martedì 4 agosto 2009

Chuck Palahniuk, ovvero...the addiction



In 4 mesi mi sono letta 5 libri di Chuck Palahniuk. Succede che quando ne inizio uno devo assolutamente finirlo, sapere come va a finire. E anche adesso, in ferie, pur essendomi portata una mezza dozzina di libri, tra cui Carver, Shirley Jackson e Vonnegut, sono rimasta di nuovo imprigionata nelle storie di Palahniuk. A questo punto, sospetto la dipendenza. Beh, facciamo così, adesso per un pò basta...

Mentre mi disintossico, ecco a voi, "Soffocare" e "Diary"...

Soffocare (2002, Strade Blu Mondadori)
"Forse Dio voleva che ce lo inventassimo noi, il nostro salvatore, una volta pronti. Quando proprio non ne avessimo più potuto fare a meno."

Sessodipendenza. Soffocamento. Medicina. Pietre. Viaggi nel tempo. Questo e molto altro (come al solito),vi aspetta nelle pagine di "Soffocare". Se avete sentito parlare di questo romanzo vi potreste esser fatti un'idea, ma chissà se è quella giusta; magari che parli solo di sesso; io pensavo che le avventure del protagonista, Victor Mancini, fossero fondamentalmente incentrate sulla sua attività di soffocamento nei ristoranti della sua città.
Effettivamente ogni sera Victor si soffoca al fine di farsi salvare da qualcuno -un cameriere, un avventore- che da quel momento in poi si sentirà responsabile della sua vita e gli scriverà, si terrà informato su di lui e (possibilmente) gli invierà del denaro. Perchè Victor ha un sacco di spese per mantenere la madre malata e anoressica nella casa di lunga degenza St. Anthony, e col suo lavoro di comparsa in un finto villaggio americano del 1734 non ce la fa a pagare le sue cure ed il suo sondino nasogastrico.
Inoltre, coltiva l'hobby della sessodipendenza e allo scopo di tenerlo vivo frequenta un gruppo di disintossicazione, intessendo relazioni con le sue frequentatrici.
La madre di Victor è un pò la versione femminile del Taylor Durden di Fight Club: per tutta la vita ha fatto dentro e fuori dalla galera, arrivando puntualmente a prelevare il pargolo dalla sua ennesima famiglia adottiva non appena veniva rilasciata, guadagnandosi da vivere in modi bislacchi e cercando d'insegnare l'assoluta libertà e l'amore per l'ignoto e l'imprevedibile al suo bambino.
Lui ne è uscito piuttosto scioccato e non riesce a perdonarla per quella vita senza regole che gli ha imposto. Eppure, lui sta seguendo il suo esempio, sta cercando di uscire dagli schemi e di recuperare, metabolizzare, superare il conflitto con lei. Ida Mancini non si ricorda come deglutire e Victor soffoca. Lei non lo riconosce ed ogni volta lo prende per una persona diversa, lui continua a cambiare partner, a cercare un modo per non fermarsi, per non adeguarsi, proprio come sua madre.
La situazione si evolve in un crescendo delirante (alcuni episodi, come quello con la sessodipendente Gwen sono esilaranti) mentre Victor va alla ricerca del passato della genitrice del segreto legato alla propria nascita. Chuck Palahniuk nasconde nelle pieghe di questa storia il conflitto che ci vede contrapposti ai nostri genitori e come nel suo stile lo estremizza, coinvolgendo la maternità più famosa del mondo occidentale.
Punta il dito sulla prevedibilità delle nostre vite, sulla ricerca di un mondo sicuro, riconoscibile, etichettabile, una ricerca che ci viene insegnata sin da bambini ed alla quale pare impossibile sfuggire. Soffocare in un luogo pubblico, esporsi in tutta la propria debolezza, è paradossalmente una ricerca di spazio, di aria; fare sesso con sconosciuti per il puro piacere di farlo è il modo di Victor per fuggire a sè stesso, ma anche alle relazioni in codice, sane e accettabili che ci vengono insegnate.
Come quasi tutti i libri di Palahniuk è divertente e drammatico, soprendente nella successione degli eventi, magnetico. Lucido nel leggere in fondo alle nostre anime, è anche un'esplorazione delle paure ataviche dell'uomo, la malattia, l'invecchiamento, la morte. Il sesso.
La narrazione è brillante: ritorna ancora lo stile delle "frasi chiave" che si ripetono e ritmano il racconto, una caratteristica evidente di Chuck che forse si potrebbe anche superare (non so, è una mia opinione. D'altronde, non ho letto gli ultimissimi romanzi, quindi non so come si sia evoluta la sua scrittura). Unico appunto potrebbe farsi sul finale, un pò troppo roseo e fulmineo, in cui alcune cose rimangono inspiegate. Ma bisognerebbe anche leggerlo in originale, potrebbe trattarsi di un problema di traduzione. Un gran bel romanzo, ricco e molto più vicino alla nostra realtà di quanto potremmo pensare. Leggete e meditate.

Diary (2004, Strade Blu Mondadori)

Sarebbe interessante vedere una versione della serie a cartoni animati "Esplorando il corpo umano" sceneggiata da Palahniuk. Al centro di ogni suo romanzo, ormai s'è capito, c'è il corpo: si disfa, si ricostruisce e cambia sesso, si trasforma. Il corpo di una fotomodella sfigurata, privata di quella parte che la rendeva preziosa, il corpo di un impiegato che cerca salvazione dalla sua vita perfetta nell'autodistruzione. Eccetera. In "Diary" il suo interesse è rivolto al corpo dell'artista, veicolo e creatore dell'arte, porta tra il finito e l'eterno, il divino.
Cos'è l'arte? Un dono? Un incidente? una combinazione biologica? Da dove viene l'ispirazione? Misty Kleinman è il veicolo di questa ricerca. Studente all'accademia d'arte, rimane incinta del fidanzato, Peter Wilmot. Lui la sposa e la porta a vivere a Waitandsea Island, da cui proviene. Da qui, la vita di Misty diviene una lunga discesa all'inferno. Il marito tenta il suicidio e rimane in coma. Lei resta sola con la figlia e la suocera a fare la cameriera in un hotel sull'isola.
Misty sembra una donna finita: alcolizzata, convinta di non avere talento e che non ci sia speranza di un futuro migliore. Ma forse una via d'uscita c'è, c'è sempre stata e sempre ci sarà. E non è detto che sia piacevole.
La trama potrà sembrarvi molto concreta, ma la direzione che la storia prende è diversa da quella a cui siamo abituati dai romanzi di Chuck Palahniuk. Non c'è scherno nè comico cinismo in questa favola nera, anzi. Misty è come una delle protagoniste delle tragedie greche, autocommiserante, a volte difficile da sopportare. La sua situazione ricorda un pò quella claustrofobica di alcuni personaggi di Stephen King, tipo Annie di Misery.
Con la variante che qui la vittima è lei.
Come una sorta di Rosemary di "Rosemary's Baby" o di "Inquilino del terzo piano" è parte incosciente di complotto a cui prende parte l'intera comunità. Il suo corpo e la sua arte sono al centro di questo rito, solo lei può essere posta sull'altare sacrificale per garantire ad una decadente classe alto borghese di restare intoccabile, immobile nel tempo nella propria posizione dominante. Una metafora piuttosto chiara e leggibile -date anche le origini di Misty- una meditazione sul ruolo dell'artista e sul controllo esterno esercitato sulle nostre vite.
I toni del romanzo gotico sembrano avere il sopravvento, anche se il linguaggio di Palahniuk non sembra proprio confacente, col suo linguaggio urbano (benchè molto più disteso che in precendenza). C'è un tentativo di adattarsi al paesaggio ed alla storia, completamente diversi dalle solite ambientanzioni, ma almeno fino a metà romanzo lo scrittore fallisce l'obiettivo di creare atmosfera e suspance, finendo per allungare troppo l'attesa dell'azione, della rivelazione.
Nonostante queste debolezze che rendono un pò noiosa la lettura in alcuni punti, un altro pezzetto di Palahniuk che val la pena di conoscere.
Un ultimo appunto, relativo all'edizione italiana: speriamo, preghiamo Mondadori di togliere questo scrittore dalla collana Strade Blu, che lo relega un pò al ruolo di autore"cannibale" per giovani ed adulti assetati di sangue. O perlomeno, che lo pubblichino con delle copertine un pò meno brutte.