Una sera, la settimana prima di Natale, eravamo a casa
del Pizza e io e lui abbiamo iniziato una delle nostre alte
disquisizioni letterarie post cena, tema il finale. Notavo
come alcuni libri che partono bene e proseguono benissimo hanno dei
finali deludenti, ed ho citato “La musica del caso” di Paul
Auster come esempio: una storia interessante, ben scritta,
che però finisce improvvisamente e senza motivo con un incidente stradale. Un trucco, una facile scappatoia, come interrompere la scena di un
tentato suicidio con una telefonata. Anche la vicenda terrestre di Isserley, protagonista di “Sotto la pelle”
s'interrompe bruscamente con un incidente, ma se il personaggio di Michel Faber (che già
aveva chiuso “A voce nuda” in abbastanza brutalmente) è tragico e sappiamo
che difficilmente se la caverà con un lieto fine, la conclusione di Auster
mi fa pensare allo scrittore che molla il colpo perchè si è stufato
di quella storia o ha di meglio da fare che arrovellarsi su una
conclusione degna o viene pressato dall'editore per consegnare al più
presto il manoscritto.
Il Pizza dal canto suo dice che con l'eccezione
dei gialli e dei libri costruiti su misteri da risolvere, il finale
non è per lui importante come un buon inizio o lo svolgimento di una storia. Posso dargli ragione, almeno in parte:
specialmente se ci si cimenta in letture corpose, tipo “Guerra e
Pace” o “Il petalo bianco e il cremisi”, quando si arriva
alla conclusione probabilmente il finale non ha più tanta
importanza.
“Le correzioni” di Jonathan Franzen (un volume abbastanza corposo) ha un finale lungo che ci racconta cosa accade
dopo l'evento culminante, atteso per tutto il libro, accompagnandoci
dolcemente verso l'ultima pagina. Niente scossoni, niente colpi di scena
epocali, la vita dei personaggi proseguirà dopo che noi saremo
arrivati al termine.
Un
finale ben costruito o a sorpresa sembra più indispensabile nei racconti e romanzi
brevi. Quando lessi “Orgoglio e Pregiudizio” di Jane
Austen,ero presissima dalla storia, ma nel momento in cui diventa
chiaro che Darcy ed Elizabeth si sposeranno, le ulteriori pagine di spiegazione di come si riaggiustano tutti i conflitti, mi parvero noiose. A pensarci bene, se la
Austen avesse voluto scrivere una conclusione veramente d'impatto
(anche se forse i suoi contemporanei non l'avrebbero gradita),
avrebbe potuto lasciare i suoi eroi sospesi nel mezzo del loro
ricongiungimento, facendoci solo immaginare quello che sarebbe
successo in seguito.
Tornando alla letteratura
contemporanea, in libri come “La
cena” di Herman Koch il finale è costruito passo passo attraverso
la narrazione, riusciamo ad immaginarcelo, ma quando effettivamente
si materializza lo troviamo
comunque sconvolgente e non riusciamo a lasciare il libro finchè non
siamo proprio all'ultima parola.
Alcuni scrittori
partono dalla fine per raccontare la storia a ritroso e l'interesse
del lettore è scoprire cosa ha portato a questo finale. Più rari
sono i casi in cui il finale viene ripetutamente svelato senza
incidere sull'interesse della storia. Uno, forse l'unico, certamente
geniale, è “Mattatoio 5”. La storia di Billy Pilgrim si può
rappresentare con il simbolo dell'infinito, si reitera continuamente
dall'inizio alla fine e viceversa e con montaggi incrociati che
destrutturano completamente il senso del tempo e danno il senso che
tutto stia accadendo contemporaneamente. Sappiamo praticamente da
subito quale sarà il destino del protagonista, come e quando morirà,
eppure continuiamo a seguire la storia. Il romanzo di Kurt Vonnegut è
un esempio di scrittura circolare, quindi il finale è un'entità
decisamente relativa, visto che tutto finisce e ricomincia
continuamente.
Ha sicuramente
ragione Pizza quando dice che i finali sono comunque limitati
rispetto agli incipit ed agli svolgimenti, ma comunque un finale ci
vuole. E' nell'economia del libro. Il finale è forse un bisogno più
psicologico che una necessità narrativa. Forse la storia può vivere
con un brutto finale o addirittura senza, ma il lettore, almeno io,
ha bisogno di una conclusione che lo riporti nel mondo in modo
coerente. E se non sono certa che un finale sorprendente, per astuzia
o fantasia, possa migliorare un libro così così, una conclusione da
poco è deprimente, come un paio di scarpe impolverate portate su un
vestito costosissimo e alla moda. Insomma, lo scrittore deve
mantenere la concentrazione fino alla fine.
Da un pò di tempo non m'imbatto nel finale aperto. Lo scrittore può evitare di dare una
chiusura definitiva alla storia, di scegliere il destino dei suoi
personaggi e lasciarlo intuire e determinare ai lettori. E' una
tecnica molto fruttuosa in termini di commenti e discussioni (anche
se leggendo alcuni forum pare di capire non sia gradita a tutti), e
l'industria dei libri a puntate lasciando in sospeso la conclusione
prepara il lettore al prossimo acquisto. E' interessante notare che
nelle pubblicazioni contemporanee la parola “Fine” sia stata
soppressa, come se effettivamente il finale avesse perso un po' lo
status solenne dei classici. In letteratura, come al cinema, forse
non esiste più una fine, ma un fluire delle storie e a noi lettori e
spettatori è concesso conoscerne una parte per poter immaginare il
resto, il prima e il dopo. E questo mi porta a pensare agli infiniti
inizi e finali dei sequel e dei prequel, prima unicamente
cinematografici ed oggi, soprattutto nella letteratura legata a
fenomeni come “Guerre Stellari”, oggi sempre più frequenti. C'è
sicuramente un'intenzione commerciale dietro a queste scelte -che
secondo me invadono e annichiliscono alla lunga l'immaginario del
lettore- ma anche un'incapacità del pubblico a staccarsi dai propri
beniamini. Eppure, i personaggi più indimenticabili hanno bisogno di
un finale. Per chiudere un libro e poterne aprire un altro totalmente
diverso, per darci la possibilità di conoscere altri personaggi ed
altri autori, e forse anche per evitare di assistere ad un'eventuale
parabola discendente della narrazione.
Sarebbe
interessante se voi lettori lasciaste nei commenti il vostro finale
preferito, vi invito a farlo. Il mio è quello di “Mattatoio 5”.
Lo estrapolo privandolo volutamente del senso che gli diede Kurt
Vonnegut, perchè a me i finali aperti piacciono, per la possibilità
di essere astratti, subliminali, multidimensionali. Dategli voi il
significato che preferite!
Poo-tee-weet?