mercoledì 23 gennaio 2013

Questione di finale

Una sera, la settimana prima di Natale, eravamo a casa del Pizza e io e lui abbiamo iniziato una delle nostre alte disquisizioni letterarie post cena, tema il finale. Notavo come alcuni libri che partono bene e proseguono benissimo hanno dei finali deludenti, ed ho citato “La musica del caso” di Paul Auster come esempio: una storia interessante, ben scritta, che però finisce improvvisamente e senza motivo con un incidente stradale. Un trucco, una facile scappatoia, come interrompere la scena di un tentato suicidio con una telefonata. Anche la vicenda terrestre di Isserley, protagonista di “Sotto la pelle” s'interrompe bruscamente con un incidente, ma se il personaggio di Michel Faber (che già aveva chiuso “A voce nuda” in abbastanza brutalmente) è tragico e sappiamo che difficilmente se la caverà con un lieto fine, la conclusione di Auster mi fa pensare allo scrittore che molla il colpo perchè si è stufato di quella storia o ha di meglio da fare che arrovellarsi su una conclusione degna o viene pressato dall'editore per consegnare al più presto il manoscritto.

Il Pizza dal canto suo dice che con l'eccezione dei gialli e dei libri costruiti su misteri da risolvere, il finale non è per lui importante come un buon inizio o lo svolgimento di una storia. Posso dargli ragione, almeno in parte: specialmente se ci si cimenta in letture corpose, tipo “Guerra e Pace” o “Il petalo bianco e il cremisi”, quando si arriva alla conclusione probabilmente il finale non ha più tanta importanza.
“Le correzioni” di Jonathan Franzen (un volume abbastanza corposo) ha un finale lungo che ci racconta cosa accade dopo l'evento culminante, atteso per tutto il libro, accompagnandoci dolcemente verso l'ultima pagina. Niente scossoni, niente colpi di scena epocali, la vita dei personaggi proseguirà dopo che noi saremo arrivati al termine.
Un finale ben costruito o a sorpresa sembra più indispensabile nei racconti e romanzi brevi. Quando lessi “Orgoglio e Pregiudizio” di Jane Austen,ero presissima dalla storia, ma nel momento in cui diventa chiaro che Darcy ed Elizabeth si sposeranno, le ulteriori pagine di spiegazione di come si riaggiustano tutti i conflitti, mi parvero noiose. A pensarci bene, se la Austen avesse voluto scrivere una conclusione veramente d'impatto (anche se forse i suoi contemporanei non l'avrebbero gradita), avrebbe potuto lasciare i suoi eroi sospesi nel mezzo del loro ricongiungimento, facendoci solo immaginare quello che sarebbe successo in seguito.

Tornando alla letteratura contemporanea, in libri come “La cena” di Herman Koch il finale è costruito passo passo attraverso la narrazione, riusciamo ad immaginarcelo, ma quando effettivamente si materializza lo troviamo comunque sconvolgente e non riusciamo a lasciare il libro finchè non siamo proprio all'ultima parola.
Alcuni scrittori partono dalla fine per raccontare la storia a ritroso e l'interesse del lettore è scoprire cosa ha portato a questo finale. Più rari sono i casi in cui il finale viene ripetutamente svelato senza incidere sull'interesse della storia. Uno, forse l'unico, certamente geniale, è “Mattatoio 5”. La storia di Billy Pilgrim si può rappresentare con il simbolo dell'infinito, si reitera continuamente dall'inizio alla fine e viceversa e con montaggi incrociati che destrutturano completamente il senso del tempo e danno il senso che tutto stia accadendo contemporaneamente. Sappiamo praticamente da subito quale sarà il destino del protagonista, come e quando morirà, eppure continuiamo a seguire la storia. Il romanzo di Kurt Vonnegut è un esempio di scrittura circolare, quindi il finale è un'entità decisamente relativa, visto che tutto finisce e ricomincia continuamente.
Ha sicuramente ragione Pizza quando dice che i finali sono comunque limitati rispetto agli incipit ed agli svolgimenti, ma comunque un finale ci vuole. E' nell'economia del libro. Il finale è forse un bisogno più psicologico che una necessità narrativa. Forse la storia può vivere con un brutto finale o addirittura senza, ma il lettore, almeno io, ha bisogno di una conclusione che lo riporti nel mondo in modo coerente. E se non sono certa che un finale sorprendente, per astuzia o fantasia, possa migliorare un libro così così, una conclusione da poco è deprimente, come un paio di scarpe impolverate portate su un vestito costosissimo e alla moda. Insomma, lo scrittore deve mantenere la concentrazione fino alla fine.
Da un pò di tempo non m'imbatto nel finale aperto. Lo scrittore può evitare di dare una chiusura definitiva alla storia, di scegliere il destino dei suoi personaggi e lasciarlo intuire e determinare ai lettori. E' una tecnica molto fruttuosa in termini di commenti e discussioni (anche se leggendo alcuni forum pare di capire non sia gradita a tutti), e l'industria dei libri a puntate lasciando in sospeso la conclusione prepara il lettore al prossimo acquisto. E' interessante notare che nelle pubblicazioni contemporanee la parola “Fine” sia stata soppressa, come se effettivamente il finale avesse perso un po' lo status solenne dei classici. In letteratura, come al cinema, forse non esiste più una fine, ma un fluire delle storie e a noi lettori e spettatori è concesso conoscerne una parte per poter immaginare il resto, il prima e il dopo. E questo mi porta a pensare agli infiniti inizi e finali dei sequel e dei prequel, prima unicamente cinematografici ed oggi, soprattutto nella letteratura legata a fenomeni come “Guerre Stellari”, oggi sempre più frequenti. C'è sicuramente un'intenzione commerciale dietro a queste scelte -che secondo me invadono e annichiliscono alla lunga l'immaginario del lettore- ma anche un'incapacità del pubblico a staccarsi dai propri beniamini. Eppure, i personaggi più indimenticabili hanno bisogno di un finale. Per chiudere un libro e poterne aprire un altro totalmente diverso, per darci la possibilità di conoscere altri personaggi ed altri autori, e forse anche per evitare di assistere ad un'eventuale parabola discendente della narrazione.

Sarebbe interessante se voi lettori lasciaste nei commenti il vostro finale preferito, vi invito a farlo. Il mio è quello di “Mattatoio 5”. Lo estrapolo privandolo volutamente del senso che gli diede Kurt Vonnegut, perchè a me i finali aperti piacciono, per la possibilità di essere astratti, subliminali, multidimensionali. Dategli voi il significato che preferite!
Poo-tee-weet?


martedì 1 gennaio 2013

I migliori

Tra i lettori di questo blog alcuni sono appassionati di classifiche e qualcuno mi ha chiesto, nonostante non sia nelle mie inclinazioni, di  farne una personale dei libri migliori che ho letto nel 2012.
Ci ho pensato un pò. Impossibile, proprio non mi riesce. Per non deludere il mio pubblico però, ho fatto una scelta dei quattro libri/autori che più mi hanno emozionata e colpita, e vi ripropongo i titoli e qualche sensazione, mettendoli in ordine sparso, quindi non c'è un primo, un secondo etc. D'altronde trovo che siano scrittori ed opere così diversi tra loro che sia impossibile paragonarli. Se cliccate sul titolo potete leggere la recensione scritta subito dopo aver letto il libro, chissà se nel frattempo ho cambiato idea su qualcosa.  Buona lettura, Buon 2013!!

Alan Bennett, "La Signora nel Furgone" e "La Sovrana Lettrice". La mia formazione letteraria è di stampo anglosassone, ho iniziato coi romanzi di avventura di Stevenson e Kipling, proseguito con Oscar Wilde, Conan Doyle e i narratori horror ottocenteschi, qualche autore anglo-indiano (Rushdie, Narayan), ma dopo gli anni ottanta, la new wave degli scrittori dell'ecstasy e delle paranoie post adolescenziali mi ha un pò disamorata della letteratura del Regno Unito. Nick Hornby in particolare mi sembra molto sopravvalutato. Ma Alan Bennett è grandioso, acuto, divertente, scrive libri brevi ma succosi e non si limita ad osservare con l'occhio cinico dell'intellettuale distaccato, partecipa alla vita al punto di tenere nel proprio giardino per quasi vent'anni il furgone di una barbona per proteggerla dai vandali e raccontarne la storia con humour e tenerezza. Quando sono triste Alan Bennett mi consola.

Agotha Kristoff, "Trilogia della città di K". Ecco una vera scoperta del 2012. Erano anni che vedevo girare questo libro nelle mani di sconosciuti, ma non avevo la minima idea di cosa si trattasse. Poi un'amica me lo ha regalato. Non la ringrazierò mai abbastanza per avermi fatto conoscere quest' autrice incredibile, che con materiale limitatissimo (un tempo verbale, frasi brevi, pura descrizione dei fatti) è riuscita a raccontare l'invisibile agli occhi, la solitudine più profonda, il dolore che non si cancella mai, che cambia il cuore. Un libro durissimo, ci vorrà molta forza per leggerlo e non abbandonarlo, perchè a volte fa veramente male, ma sarete ripagati.

Dino Buzzati, "La Boutique del Mistero". Altra scoperta tardiva, ma almeno ci sono arrivata. Buzzati riusciva a dare forma all'inquietudine del quotidiano, a vedere l'ignoto dietro all'apparente banalità della vita, ma anche la favola, il miracolo, l'impossibile che, per chi ci crede, diventa realtà. Era nato a Belluno, ma lavorò e visse moltissimi anni a Milano, e la città si sente, si respira nei suoi racconti anche oggi che è tanto cambiata e non sembra aver più alcun legame con quella degli anni '50 e '60. Invece è ancora lì, nascosta in un angolo e pronta a saltarci alla gola, meno male. Mi sono appena regalata un cofanetto di due volumi di suoi racconti...

Herman Koch "La Cena". Bellissimo, appassionante, agghiacciante. Tutti siamo capaci di qualunque cosa. Per ciò che amiamo veramente saremmo disposti ad annullare tutto quello che abbiamo sempre pensato di essere. Dentro ogni uomo ed ogni donna moderni, borghesi, educati e ben vestiti, dietro ogni sorriso ed ogni convenzione sociale si nasconde un piccolo Neanderthal pronto a scattare e a difendere il suo territorio nella maniera più brutale. A dispetto di qualunque evoluzione. Uno di quei libri che non si riesce a smettere di leggere, ed ogni pagina è un gradino che scendiamo verso il baratro che è dentro di noi.