venerdì 27 dicembre 2013

"I cosacchi e altri racconti" ovvero il mio primo Tolstoj

Scoprire uno scrittore attraverso le sue opere “minori” può essere fonte di grande soddisfazione; infatti nei libri meno noti si può trovare qualcosa che nei testi più famosi a volte passa in secondo piano o diventa un elemento dello sfondo, e che invece assume un carattere rivelatore una volta isolato. Dato che parliamo di Lev Tolstoj è anche fonte di rassicurazione per la vostra Frittella, che se avesse dovuto iniziare a parlare del grande autore russo partendo dai suoi monumenti probabilmente avrebbe gettato la spugna.
“I cosacchi e altri racconti” contiene scritti successivi ad un episodio che oggi potremmo definire depressivo e che segna lo spartiacque tra il primo ed il secondo Tolstoj. Nello stesso anno in cui concluse la stesura di “Guerra e pace” (sette versioni!!), egli intraprese un viaggio per l'acquisto di una tenuta, e durante una sosta notturna in una locanda venne preso da un'angoscia terribile quanto apparentemente immotivata. Improvvisamente ciò che lo circondava si riempì di cieco orrore, mentre la forma dell'esistenza condotta fino ad allora gli si rivelava come un guscio vuoto all'interno del quale non v'era nulla tranne l'abisso. Le azioni quotidiane, i gesti, le parole, diventarono oggetti fragili e senza senso. Da questo momento iniziò un processo che portò lo scrittore a rivedere tutto di sé, a formulare idee ed opinioni politiche, religiose e filosofiche nuove, a cercare un rinnovato contatto con la natura, a diventare vegetariano e ispiratore di gruppi dissidenti dal potere della società e della chiesa, che egli vedeva come nemici colpevoli di ostacolare e allontanare l'individuo dalla giusta felicità in terra. I racconti ed i romanzi successivi a questa crisi ne porteranno i segni: i personaggi protagonisti non sono più nobili e ricchi, ma anche contadini poveri, ladruncoli, prostitute, animali, coloro cioè che si trovavano più in basso nella scala sociale. E quando sceglierà una nobile (Anna Karenina) lo farà per criticare apertamente la società russa e i suoi modelli. Le storie sono segnate da un cupo pessimismo e da un intento quasi moralizzatore. Si fosse trattato di un altro autore probabilmente questa volontà “didattica” avrebbe potuto guastare la sincerità della scrittura e il piacere della lettura, ma visto che parliamo di un personaggio di questa levatura (larger than life, direbbero gli anglosassoni) è un rischio che non corriamo.
Questi racconti sono un ritratto morale e ironico della Russia ma soprattutto del loro autore, e costituiscono tutti insieme una piccola quanto articolata mappa dei suoi interessi e turbamenti . Che sia esplicitamente autobiografico come ne “I cosacchi” o ne “Il diario di un pazzo” (cronaca della terribile notte che cambiò la sua vita) o narri di esistenze totalmente diverse dalla sua, Tolstoj si specchia nelle sue storie, nei romantici idealismi di Olenin (vero e proprio alter ego), giovane ufficiale russo in fuga dall'alta società e alla scoperta dei paesaggi e del popolo cosacco, nelle vicende umoristiche de “I due ussari”, malinconiche di “Cholstomer” e “Tre Morti” o in quelle drammatiche di “Polikuska” -la parabola sfortunata di un povero ladruncolo in cerca di remissione, rappresentante di quel popolo sconfinato di servi poveri la cui unica possibilità stava nel compiacere chiunque si trovasse in una posizione sociale superiore, nella speranza di diventargli utili e migliorare minimamente la propria condizione. E' con costoro che egli si schiera, raccontando le loro miserie con gusto del paradosso e con la malinconia e il fatalismo tipici delle storie popolari. Anche ad un profano è evidente il tormento dello scrittore, lucido indagatore dell'animo umano impietoso con sé stesso e con gli altri, in ricerca della verità, della giustizia, in fuga da sé stesso verso una pace vagheggiata nella natura e nella (impossibile) fratellanza con tutti gli uomini, verso ideali politici e religiosi rivoluzionari per l'epoca e forse anche oggi.
Sembra Gandalf ma è Tolstoj

I personaggi che popolano buona parte dei racconti sono emblematici dei rapporti tra le diverse classi del periodo e i loro atteggiamenti sono ripresi con precisione e umorismo. Basti per tutti il dialogo surreale tra il concreto fattore e la padrona che apre “Polikuska” e li vede discutere senza ascoltarsi, in un reciproco studio degli atteggiamenti altrui. Bastano poche righe per capire quanto la donna sia stupida, animata da una ridicola volontà/vanità di redenzione di Polikuska che sarà invece causa della sua rovina. Tolstoj è spietato nel tratteggiare la vanità e l'inconsistenza morale dei nobili del suo tempo, e se i più poveri e miserabili soffrono un destino avverso, i più ricchi e fortunati sono giudicati senza benevolenza. Ecco come viene descritta la giovane Liza ne “I due ussari”:
“L'espressione del suo viso, quando era occupata e niente la agitava in modo particolare, era come se dicesse a tutti quelli che la guardavano: è bello e allegro essere al mondo per chi ha qualcuno da amare e ha la coscienza pulita. Anche nei momenti di dispetto, di turbamento, di trepidazione o di dolore, attraverso una lacrima che le increspava il sopracciglio sinistro, le labbra serrate, splendeva lo stesso (…) un cuore retto, buono, non rovinato dall'intelligenza.”. Tuttavia, egli riesce ad essere leggero, a non risultare mai arcigno o vendicativo, semmai cinico e divertito.
Merita infine una nota la descrizione dei luoghi e dei paesaggi, ricca, efficace come i colori di un grande pittore: il magico viaggio di Olenin da Mosca verso il Caucaso, un vero piano sequenza che racconta il passaggio dalla città con la sua vanità e povertà spirituale al piccolo villaggio cosacco, vivo, concreto, sincero, mondi separati da una natura immensa e fantastica; i grandi ambienti dove vivevano loro malgrado diverse famiglie, densi di chiacchiere, malignità e pettegolezzi; le foreste russe con la loro pace, i suoni, la luce e perfino gli odori.
Per chi ha letto il Tolstoj immenso di “Guerra e Pace” questi racconti saranno una sorpresa, per chi non lo conosce un modo
per scoprire un Padre della grande letteratura.

( Lev Tolstoj “I cosacchi” 1996, Garzanti Editore)


venerdì 13 dicembre 2013

BUONE notizie!

Ebbene, finalmente una bella novità per chi ama i libri: il ministro Zanonato annuncia che sarà possibile richiedere il rimborso del 19% sull'acquisto di libri. Un segnale importante dato dalle istituzioni dopo anni di assoluto silenzio e totale disinteresse per l'editoria nazionale, anche quando il proprietario di una grande casa editrice era primo ministro, e che non si estende all'editoria digitale (doppia soddisfazione per me, refrattaria all'ebook). Era ora.

mercoledì 6 novembre 2013

Brutte notizie

Milano assiste ad una drammatica morìa di librerie. Dopo il grido d'aiuto lanciato dalla storica Libreria Bocca in Galleria Vittorio Emanuele, sabato 9 novembre sarà l'ultimo giorno della Libreria Largo Mahler, che già a settembre aveva annunciato la chiusura. Nella città che fra poche settimane ospiterà Bookcity, nella città dell'editoria, la scomparsa di ogni libreria, ma soprattutto delle piccole librerie, che sono luoghi di cultura molto più dei grandi store, è un vero dramma. I rischi di una struttura di distribuzione editoriale affidata solo ai grandi marchi sono abbastanza evidenti: omologazione dei titoli a favore delle grandi case editrici, con un conseguente appiattimento dei punti di vista e delle idee offerte ai lettori. Le piccole librerie offrono i titoli di grido e in più possono proporre scoperte editoriali sulle quali il grande negozio -che segue una politica unicamente commerciale- difficilmente punterà. Per queste ragioni e per il rapporto diverso che si instaura tra libraio e lettore, è importante la sopravvivenza delle piccole librerie, soprattutto nelle zone meno centrali delle grandi città, dove sono spesso punti d'incontro e socializzazione.
E' nata da poco LIM, associazione delle librerie indipendenti di Milano, speriamo che riesca a rendere visibili queste realtà preziose del tessuto cittadino, e speriamo che la Libreria Largo Mahler rinasca, anche da qualche altra parte, perchè abbiamo veramente bisogno delle piccole librerie indipendenti.
Arrivederci, dunque.

sabato 2 novembre 2013

Bookcity 2013

Ritorna Bookcity, la manifestazione milanese per chi ama i libri. Anche quest'anno ci saranno tantissimi incontri ed iniziative gratuiti distribuiti dal centro alla periferia, e alcuni eventi saranno accessibili alle persone Sorde grazie alla traduzione in Lingua dei Segni di volontarie. Il programma è ricchissimo, se volete cominciare a programmare gli impegni, lo trovate qui.

sabato 19 ottobre 2013

Canis Canem Est

Ieri scartabellando tra i miei file ho trovato alcuni schizzi che ho fatto per uno spettacolo di burattini ispirato a "Cuore di Cane" Mikhail Bulgakov. Anche se hanno già un paio d'anni continuano a piacermi e a rappresentare l'atmosfera cupa e surreale del racconto. Almeno per me.
Studio per la trasformazione di Pallino da cane a uomo

Studio per la locandina dello spettacolo. Noterete l'ispirazione grafica di Rodchenko...

domenica 6 ottobre 2013

Fallimenti di successo: "Il grande ritratto", Dino Buzzati

C'è una fantascienza da tempo fuori moda in cui il progresso tecnologico e la scienza vengono scrutati con timore e curiosità, in cui all'emozione e all'interesse per le novità che porterà il futuro si contrappongono le paure dell'uomo che si troverà ad affrontarli. A questo filone appartengono alcuni racconti di autori dell'ottocento e dei primi decenni del novecento; un nome per tutti è quello di Mikhail Bulgakov, che con “Cuore di Cane” e “Le uova fatali”, non solo produsse una tagliente satira della Russia dell'epoca (1925) ma espresse anche la segreta angoscia per l'affermazione di un mondo in cui la scienza diventava sempre più preponderante e aggressiva, votata all'inseguimento di oscuri obiettivi di potere sull'uomo e sulla natura. Sono questi racconti che si concentrano non tanto sugli aspetti tecnici degli esperimenti quanto sulle loro conseguenze, per lo più nefaste.
In questo filone in cui la natura e la materia inanimata e fredda si scontrano, prevalentemente europeo, si può inserire in parte anche “Il grande ritratto”, un racconto lungo di Dino Buzzati in cui le macchine danno corpo alle ossessioni dei loro costruttori, diventando uno specchio che rimanda un'immagine deformata e mostruosa. Pubblicato nel 1960 non ha velleità satiriche, al contrario si concentra su temi tipicamente Buzzatiani legati all'inconscio, alla morte, all'erotismo, alla paura di essere sopraffatti da qualcosa di oscuro, che sfugge ad ogni controllo. La vicenda è ambientata in montagna, in un'immaginaria Val Texeruda, dove un segretissimo impianto militare è stato costruito da alcuni scienziati ed è gelosamente custodito dall'esercito italiano. Il professor Ismani viene invitato a lavorarci, e sebbene non gli venga rivelato il suo compito, decide di accettare. Parte quindi con la moglie Elisa e dopo un viaggio lungo e misterioso raggiunge la valle, dove incontra i suoi colleghi Endriade (il capo del progetto), Strobele e la di lui moglie Olga, sua ex allieva al liceo. Di più, per correttezza verso i lettori non posso raccontare, perchè in effetti la storia è molto breve. Non si tratta di un capolavoro, anzi: l'abilità narrativa di Buzzati qui inciampa lasciandoci in bocca l'amaro di personaggi poco caratterizzati (tranne Olga ed Endriade, stereotipi abbastanza classici), di situazioni a volte poco originali o irrisolte che avrebbero potuto generarne altre molto interessanti, di una narrazione poco organica, quasi sfilacciata e non da ultimo di un finale consolatorio. Nonostante tutto questo, l'idea di trasformare la vita in qualcosa di morto per poterla perpetuare all'infinito è affascinante e spaventosa, e l'immagine della montagna contrapposta alla mostruosa opera mimica e devastante dell'uomo, molto forte. Troviamo in questo racconto elementi che torneranno in seguito (il luogo isolato, la solitudine, la missione misteriosa, il protendersi verso un tempo indefinito che ritroveremo ne “Il deserto dei tartari”) ma che restano sigillati come boccioli di fiori maligni non schiusi, quasi che lo stesso autore non abbia avuto il coraggio di spingersi oltre il limite. E' piuttosto evidente che questo libro, nonostante la predilezione di Buzzati per i racconti brevi, avrebbe dovuto e potuto essere ben più corposo, per dare spazio ai desideri dei personaggi, caricare al limite l'atmosfera oscura che comunque si sprigiona -anche se in modo discontinuo- dalle pagine.
Sono da notare alcune scelte linguistiche inconsuete, come l'uso del passato remoto e del presente indicativo in due frasi consecutive che descrivono lo stesso istante, con un effetto quasi cinematografico di campo e controcampo.
“Il grande ritratto” è un libro letterariamente modesto, ma è pur vero che un'opera poco riuscita come questa, con le sue imperfezioni e “reticenze” dice forse molto più dell'autore, delle sue inquietudini e dei suoi turbamenti, di quanto non facciano a volte lavori molto più riusciti.


(Dino Buzzati “Il grande ritratto” , 2004 Mondadori)

domenica 29 settembre 2013

La dolce solitudine: Alice Munro "Le lune di Giove"

Era da molto tempo che mi ripromettevo di leggere un libro di Alice Munro, considerata la più importante scrittrice di racconti contemporanea. Finalmente mi sono decisa a fare il grande salto e tra i molti volumi disponibili di Einaudi ho scelto “Le lune di Giove”, titolo affascinante e vagamente fantascientifico. In realtà la materia che maneggia l'autrice canadese non è uranio né qualche metallo esotico, ma quella ben più sfuggente e instabile dei pensieri, dei sentimenti e delle sensazioni. Sono questi a costituire la carne delle sue storie, a tenere insieme fatti e personaggi descritti con estrema solidità e incredibile ricchezza di sfumature. Tutto il loro mondo interiore è reso con precisione e lucidità, così come avvenimenti drammatici e descrizioni a dir poco raccapriccianti come in “L'incidente” o “La stagione dei tacchini”. Le protagoniste dichiarate sono tutte donne, di qualsiasi età, colte nel momento in cui diventano consapevoli di un'incrinatura nel loro rapporto con un uomo. Può essere un collega di lavoro per il quale si ha una cotta o il proprio marito o un giovane colpito da ictus al quale si sta cercando di dare una mano: la “rivelazione”, arriva in un momento qualsiasi, magari in età avanzata, dopo anni di matrimonio oppure ancora prima che una vera relazione sbocci, e porta con sé la cognizione di una profonda solitudine, dell'impossibilità di essere realmente tutt'uno con un uomo. A volte è una conoscenza dolorosa, altre è una semplice constatazione, altre ancora è una scelta vissuta orgoglio. Così ad esempio ne “I Chaddeley e i Fleming” la stessa situazione è vista da due prospettive totalmente diverse, e mentre le zitelle Chaddeley non soffrono affatto della propria condizione, anzi godono della libertà che gli concede la mancanza di legami sentimentali, le loro controparti Fleming pur essendo incapaci di immaginarsi una vita diversa da quella che vivono sono inconsapevolmente indurite dalla loro solitudine. Spesso gli eventi -che si provano sintomatici di un accadimento futuro o di comportamento solo apparentemente sorprendente- sono resi attraverso il ricordo, e il racconto è composto su diversi piani temporali tenuti insieme dai pensieri della protagonista o della narratrice.
Da questa struttura che sembra porre l'accento sulla sensibilità e sull'intimità dei sentimenti femminili, emergono per contrasto, chiare e taglienti, figure di uomini che influenzano e talvolta decidono la direzione che le vite delle donne prenderanno: dal professore di chimica che finalmente lascia la moglie e sposa l' amante per pura affermazione della propria libertà personale, al superficiale ed affascinante antropologo che colleziona relazioni su relazioni, al suo rozzo amico che fa discorsi lugubri ed umilianti sulla natura femminile. Questa posizione di immeritato dominio accentua la sensazione che una reale, duratura sintonia tra generi sia impossibile, che un uomo non possa veramente essere il completamento di una donna e che quest'ultima resti sempre e comunque libera e sola.
Sullo sfondo si inseguono periodi temporali più o meno definiti (l'inizio del 1900, gli anni quaranta...) che portano un bagaglio di moralismi e convenzioni che le donne di Alice Munro più o meno coscientemente sfidano e spesso vincono. Tutto questo può far pensare ad una scrittrice femminista, ma non saprei se confermare questa supposizione, le protagoniste di questi racconti sono tutt'altro che femministe e attraversano la disillusione senza cinismo, come se l'avessero sempre prevista, come se di fatto non le avesse colte di sorpresa.
Il solo vero difetto che ho trovato in questa raccolta è una nota monotona nell'atmosfera, che -forse a causa della narrazione mutuata dal ricordo, in cui l'azione è poca e compatta (con qualche eccezione)- risulta a volte un po' troppo uniforme.


(Alice Munro “Le lune di Giove” 2008 Einaudi)

mercoledì 25 settembre 2013

Tre Link

Vi propongo tre link interessanti passatimi da Ciambella:
Il primo è un breve articolo sull'illustratore John Kenn Mortensen, specializzato in mostri e bambini, lo trovate qui.
Il secondo è un curioso blog "Copertinedilibri" i cui post sono realizzati accostando diverse copertine di libri diversi accomunate dalla stessa immagine, eccolo qua.
Il terzo e ultimo è un blog più classicamente letterario ed editoriale, si chiama "Cose da libri", e la sua autrice è un'editor. Molto interessante...e lo trovate quo . Buona lettura.

venerdì 6 settembre 2013

Sweet Dreams are made of this: "Fare Editoria", Luca Leone

Come moltissime persone ho un sogno, lavorare in mezzo ai libri: come autrice, disegnatrice, bibliotecaria, libraia o editore, qualsiasi cosa andrebbe bene. Ma di come si fanno i libri, di come
arrivano in libreria, delle ragioni della continua crisi dell'editoria non ne sapevo nulla, e nemmeno sono stata in grado recuperare informazioni per farmi un'idea di come funzioni il sistema. Questo volumetto ha posto infine termine alla mia ignoranza, e la nebbia mitica che avvolge il mondo degli editori italiani ha iniziato a dissolversi. Per rivelare purtroppo una situazione agghiacciante, che però è meglio conoscere.
Creare un libro, pubblicarlo e venderlo non è semplice, e non solo per una questione di soldi: bisogna conoscere l'oggetto-libro, mantenere relazioni con i distributori, sapersi promuovere, saper scegliere gli autori e sviluppare i progetti editoriali, conoscere le nuove tecnologie, i calendari di pubblicazione e (soprattutto) l'infernale sistema burocratico e di tassazione italiano. Ognuna delle figure che ruotano intorno ai libri ha parte attiva nella loro vita, anche i lettori, normalmente portati a vedersi come passivi, in balìa delle scelte delle case editrici e di conseguenza del mercato; in realtà contribuiscono in non poca misura alla vita dei libri e alla cultura. L'acquisto di un bene è di per sé un gesto forte, e quando compriamo un libro favoriamo un certo tipo di autore, di casa editrice, di libraio: rifornirsi di letture in una piccola libreria o in un megastore o in un supermercato non è la stessa cosa, e il vantaggio di risparmiare qualche centesimo può essere alla lunga un danno; nemmeno scegliere un volume “di grido”, un titolo scritto da qualcuno già noto o da un autore meno conosciuto che però potrebbe avere qualcosa di nuovo da dire è qualcosa che non ha conseguenze. Certo, la fiducia non va data a chiunque a prescindere, solo perchè sconosciuto o pubblicato da una piccola casa editrice, ma per lo stesso motivo non bisogna escludere determinati autori dalla nostra ricerca e non dargli una possibilità. Luca Leone chiama il lettore in causa togliendogli il ruolo di semplice consumatore, dandogli delle precise responsabilità e con esse gli ricorda che scegliere un libro è qualcosa che prende tempo e che va fatta con calma e amore.
Ovviamente anche autori, editori, distributori e librai hanno dei doveri, e sono sia pratici che deontologici. Questo libro non ha solo il merito di spiegare in modo limpido, appassionato e piacevole come funziona l'editoria italiana, ma anche di chiarire le relazioni e i ruoli -strettamente collegati tra loro- di ognuno dei protagonisti in gioco. Quando si conoscono i fatti ci si sente più comprensivi per i prezzi dei libri, esagerati ma dovuti ad un carico fiscale veramente assurdo, e desiderosi di seguire le piccole case editrici, quelle che di fatto scoprono i nuovi talenti e sono fonti di novità e varietà in un panorama che appare sempre più appiattito e conservatore. Non mancano un capitolo (piuttosto divertente) dedicato agli autori che contiene anche qualche utile consiglio per chi voglia presentare i propri lavori ad una casa editrice, e uno che si occupa dell'ebook e spiega perfettamente i motivi pratici e affettivi per cui questo mezzo difficilmente riuscirà a sostituire il nostro amato libro di carta.
Finita la lettura certamente i sogni (anche i miei) si saranno ridimensionati, ma saremo in grado di apprezzare il lavoro che sta dietro ad ogni volume e di fare scelte più consapevoli e soddisfacenti. Vi consiglio anche di visitare il sito di Infinito Edizioni, molto ben fatto.

(Luca Leone “Fare Editoria”, 2013 Infinito Edizioni)





giovedì 5 settembre 2013

Leggere e Rileggere

La vita è breve, i libri sono tanti. Perciò è difficile che io rilegga un libro se non a distanza di molti mesi (o anni); le eccezioni sono rappresentate da romanzi per me fondamentali come Mattatoio 5, che in un anno ho riletto cinque volte; oppure da dubbi di puntigliosa traduzione, come per “Fate a New York” di Martin Millar, che rilessi a distanza ravvicinatissima in Italiano e in Inglese. Ma il caso più eclatante appartiene alla mia infanzia, quando consumai “Me ne infischio di Re Cetriolo!” di Christine Nostlinger (con due puntini sulla "o", che però non trovo...), un antico tascabile BUR Ragazzi, leggendolo almeno nove volte. Cavolo, se era un bel libro, quello.
 Piccina piccina, l'unica immagine che ho trovato della copertina originale dell'indimenticabile  "Me ne infischio di Re Cetriolo!" 
Rileggere può essere rischioso. Molte volte riprendere in mano quello che ricordavamo come un capolavoro è deludente e ci convince di aver preso a suo tempo un atroce abbaglio. Mi è capitato di rimettere gli occhi su pagine che mi avevano entusiasmata da ragazzina e che mi hanno delusa, addirittura annoiata da adulta (alcuni passaggi del “Ritratto di Dorian Grey” di Oscar Wilde, che per me è stato un romanzo di formazione anche del gusto per la letteratura, un vero e proprio rito di passaggio; “Il mastino dei Baskerville” di Conan Doyle, che mi aveva incantata con la descrizione della brughiera ma che si è rivelato molto meno appassionante come giallo; la scrittura di “American Tabloid” di James Ellroy, fitta, frammentata, devastante), ma mai il contrario, anche perchè difficilmente siamo disposti a riprendere in mano un libro che non ci è piaciuto. Leggere è un'attività che assorbe tempo e non sembra sensato sprecarne dietro a pagine che già abbiamo sperimentato come non esaltanti. Quando rimaniamo delusi è -abbastanza banalmente- perchè la nostra esperienza supera quello che eravamo in quel determinato momento e a volte le emozioni che abbiamo provato vengono sommerse dalla consapevolezza che il prodotto letterario non ci piace più, non aderisce più a quello che siamo e cerchiamo ora, o che era qualitativamente più modesto di quanto ci ricordavamo. Insomma, non dipende solo dal libro, ma da noi, da quanto siamo cambiati. Certo, migliore è lo scritto, più difficile è che si possa essere delusi. Ed essere riletti non è per tutti i libri. Non è un caso che ci si senta più portati a rileggere i classici, che facilmente apprezzeremo come prima e più di prima trovandovi sempre qualcosa di nuovo che fa eco al noi di quel momento. Io stessa ammetto che incalzata dai consigli di critici e amici potrei forse rileggere “Il Gattopardo” o Cesare Pavese (inflittimi alle scuole superiori e cancellati dalla memoria), e non escludo che potrei cambiare la mia opinione su di loro.
La lettura è emotiva e di quella ricordiamo soprattutto le sensazioni, il divertimento o la noia, mentre la rilettura è di testa: pure senza intenzione analizziamo la lingua, ci fermiamo sui passaggi più belli, le relazioni tra i personaggi, i sottotesti, i particolari che non avevamo notato o non ricordavamo. Ciò non toglie nulla al piacere, anzi: è un piacere diverso, in un certo senso più consapevole e più profondo. Rileggendo qualche mese fa “Cuore di Tenebra” di Conrad, dopo sei anni vi ho ritrovato lo stesso senso di caduta e di follia che avevo sperimentato la prima volta – in questo è un libro straordinario, sul piano del coinvolgimento emotivo rimane intatto e “pericoloso”- e in più considerazioni nuove, legate anche ai temi del razzismo e dell'imperialismo.
La mia lentezza di lettura m'impedisce però di ripetere troppo spesso l'esperimento perchè ci sono tantissimi libri che vorrei leggere e anche così chissà quanti non riuscirò mai nemmeno ad aprire.
Ma se decidessi di invertire la rotta e tornare sui miei passi letterari, quali libri vorrei rileggere? Ecco alcuni titoli. Ovviamente sono libri che ho amato, ognuno per motivi diversi, e noterete che molti sono classici...

“Huckleberry Finn” di Mark Twain,
“Il segno dei quattro” di Arthur Conan Doyle,
“Il Maestro e Margherita” di Mikhail Bulgakov,
“I racconti di Pietroburgo” di Nikolaij Gogol,
“Il canto della neve silenziosa” di Hubert Selby Jr,
“Il giovane Holden” di Salinger (un altro caso di rilettura seriale: per tre volte l'ho completato e pur piacendomi non ho mai compreso il grande entusiasmo dei critici)
“Freddo a Luglio” di Joe Lansdale
“Sotto la pelle” di Michel Faber


sabato 10 agosto 2013

Caccia ai libri su Radiotre

Probabilmente sono l'ultima ad accorgermi di questa trasmissione, ma se qualcuno non lo sa ancora beh, questo post sarà servito.
Su Radiotre, all'interno della trasmissione "Fahrenheit" la rubrica La caccia al libro mette in contatto lettori alla ricerca disperata di libri introvabili con persone che questi libri li hanno. Trovate le informazioni sulla partecipazione sul sito della Rai. Io inizio a scrivere una lista...

sabato 27 luglio 2013

Perchè non sappiamo quello che facciamo: "Che Dio ci perdoni" A.M.Homes

Perchè i dischi volanti? Non so proprio...
Se seguite da un po' questo blog vi sarete accorti che normalmente non mi precipito in libreria all'acquisto delle uscite più recenti, anzi. Quando però una sera girando per una libreria milanese ho individuato sullo scaffale delle novità l'ultimo romanzo di A.M. Homes sono stata presa dall'urgenza di portarmelo a casa. Le sensazioni ci sono amiche, non avevo sbagliato: questo potrebbe diventare il libro della vita dell'autrice americana, probabilmente per comprenderlo in tutte le sue sfumature ci vorranno diverse letture. E' una storia di cambiamento, personale e nazionale. Sesso, crisi di mezza età, Bar Mizvah e religione; gli intrighi politico spionistici degli USA, la famiglia che esplode e si ricostruisce; Richard Nixon, il passato, il presente e il futuro. L'infinitamente piccolo e l'infinitamente grande degli Stati Uniti passa attraverso gli occhi di Harold Silver, un professore universitario di storia appassionato della figura di Nixon, sposato con una donna molto impegnata e fratello di George, un produttore televisivo sbruffone, violento e pieno di sé. Il giorno del Ringraziamento proprio a casa di quest'ultimo succede qualcosa in cucina, tra una portata e l'altra; è il preludio ad una serie di eventi che nel giro di pochissimi giorni spazzeranno via la vita vissuta fino a quel momento dai fratelli Silver. Harold, investito in pieno dalla grandinata di mattoni (del quale è corresponsabile) l'affronta con apparente ironica rassegnazione, incassa ogni colpo cercando di restare a galla. Lentamente, inconsciamente, assume l'identità del fratello, vive a casa sua, indossa i suoi vestiti, userà (onestamente) il suo denaro si prenderà cura dei suoi figli, diventerà un suo doppio positivo, capace di compassione e di ascolto. Questo transfer fisico diventa un modo per indagare i rapporti col fratello e con la famiglia d'origine, per tornare indietro nel tempo e cercare di trovare le ragioni del malessere che l'accompagnano da tutta la vita. Passato e presente si rincorrono continuamente, nei ricordi e nelle considerazioni di Harold sulla figura di Nixon, che per lui rappresenta il sogno americano con tutta la sua arroganza mista a un senso di colpa e a un desiderio di essere migliori degli altri ma soprattutto “decenti”. La rappresentazione storica della realtà americana innerva tutto il libro, la troviamo nella paranoia dell'omicidio di una giovane commessa di Starbucks e nell'infanzia trascurata dei figli (l'America di domani) che genera mostri, nei rapporti col piccolo villaggio sudafricano di Nateville e nei personaggi, unici, con cui Harold tesse le sue relazioni. Come già accadeva in “Musica per un incendio”, nel momento della rottura dell'equilibrio costituito iniziano ad accadere cose straordinarie e dallo sfondo della periferia borghese di una suburbia americana emergono persone che ci sono sempre state ma della cui presenza eravamo a malapena consapevoli; ne scopriamo la personalità, diventano amici. Mentre i legami tradizionali implodono o semplicemente sbiadiscono altri si rafforzano, sono la nuova famiglia in cui tutte le età, tutti i generi e (quasi)tutte le razze sono rappresentati. Harold accetta tutti i lati positivi e negativi di questi incontri, si lascia condurre dagli eventi, li asseconda e in breve si troverà a costruire una nuova vita, inaspettata e totalmente fuori dagli schemi della sua esistenza precedente. La casa stessa, che anche nel libro precedente era il nucleo attorno al quale si muovevano i protagonisti ma che simboleggiava al tempo stesso il conformismo sociale e la prigione delle convenzioni in cui si nascondevano i vizi della piccola borghesia americana, pur restando centrale diventa una specie di stazione, un luogo di passaggio e di accoglienza senza pregiudizi. La base del rinnovamento.

A.M. Homes confronta l'America del presente con quella che del passato e quella che potrebbe essere. E' il paese post 11 settembre, attonito, terrorizzato, che cerca di ricostruirsi fuori e soprattutto dentro. E non sembrano casuali le dichiarazioni del misterioso personaggio che parla con Harold sull'ascensore e gli scrive “...ti piace pensare che si tratti realmente di finzione”.
Harold Silver è un personaggio eccezionale, un po' Billy Pilgrim, un po' Buster Keaton, un po' Larry Gopnik(il protagonista di “A serious man” dei fratelli Cohen) candido e perverso, ingenuo e furbo, ironico e un pò depresso, incarna perfettamente la resistenza di Giobbe e del popolo ebraico alle sventure e fa largo uso di umorismo e autoironia, che permettono di vedere con lucidità il male senza perdere mai la speranza (ma non per questo illudendosi) che venga sconfitto. Anche quando prova rabbia, solitudine, senso di colpa, ma non dice mai “perchè a me?”. Il titolo, che apre e chiude il libro è un'invocazione, nel bene e nel male, “Che Dio ci perdoni”: per quel che abbiamo fatto e per quello che faremo, per quello che non abbiamo fatto, per la paura e per la gioia. L'autrice riesce a calarsi perfettamente nella testa di un personaggio diversissimo da Elaine e Paul, i nevrotici protagonisti di “Musica per un incendio”, la sua ironia diventa agrodolce, rendendo lieve e divertente una materia letteraria densa, di non facile assimilazione. La cosa che mi è rimasta più impressa è il grandissimo piacere che provato nel leggere questo libro, insieme alla facilità con cui ho attraversato le quasi cinquecento pagine e l'affetto che suscitano i suoi personaggi.
Perdonate la facile battuta: Che Dio vi perdoni, se non lo leggete.

(A.M.Homes “Che Dio ci perdoni” Feltrinelli 2013)





martedì 16 luglio 2013

Aggiornamento date Il Babau & i Maledetti Cretini

Detto fatto, ecco la prima occasione per conoscere i fonodrammi dal vivo: a Calvenzano (BG), sabato 20 Luglio, concerto e cena. Per informazioni e prenotazioni  : a.carciofirossi@hotmail.it
cell: 320-25.79.381 SPAZIO CARCIOFI ROSSI Calvenzano (BG) Via Circonvallazione Vecchia, 6. 
Il Babau & Maledetti Cretini suoneranno "La maschera della morte rossa" e "L'occhio rivelatore", entrambi da Edgar Allan Poe.
Buon divertimento.

lunedì 15 luglio 2013

"La maschera della morte rossa" ovvero, Edgar Allan Poe meets Il Babau & i Maledetti Cretini

Gruppo musicale dalle radici letterarie, Il Babau & i Maledetti Cretini prendono ispirazione dall'opera del grande Dino Buzzati. Dopo un primo album di canzoni “Dio, Dio mio cosa abbiamo fatto” (2003) da qualche anno si esibiscono sul territorio milanese in due spettacoli composti di tre fonodrammi ciascuno, ispirati ai racconti di Edgar Allan Poe e, appunto, Dino Buzzati. L'idea è quella di dare voce e soprattutto musica ad alcune tra le storie più inquietanti dei due autori, non limitandosi a creare un tappeto sonoro che faccia da sfondo ad una voce narrante, ma integrando le loro composizioni nel tessuto del racconto. Un esperimento al confine tra musica, letteratura e teatro al quale con questo cd – che contiene il primo fonodramma della “Trilogia del Mistero e del Terrore”- si aggiunge un ulteriore elemento che trasforma la materia ibrida maneggiata dal trio in un audiolibro o meglio, in una grottesca fiaba sonora.
“La Maschera della Morte Rossa” è un racconto visionario, basato su immagini deliranti e allucinate, quasi psichedeliche, in cui i colori e le luci sembrano vorticare davanti agli occhi del lettore e costruire il mondo perverso del principe Prospero. Qui il tema della claustrofobia, classico nella letteratura di Poe, si replica per così dire al contrario. Se infatti in molte sue storie il terrore di restare imprigionati è esplicito, addirittura dichiarato dai personaggi, qui l'isolamento in uno spazio chiuso -anche se lussuoso e fantastico- è cercato (almeno all'inizio) dal principe e dai suoi ospiti. Mentre la Morte Rossa uccide più della metà della popolazione del regno, questi privilegiati hanno come unica preoccupazione quella di divertirsi...forse vi ricorda qualcosa. Nella letteratura vi è più giustizia che nella vita, e sappiamo che tanta arroganza non resterà impunita. Il testo proposto non è integrale, e perde in parte la qualità di narrazione per immagini, pur mantenendo l'atmosfera di dissoluzione e decadenza propria del racconto originale. Se letterariamente si perde qualcosa, con la musica viene creato uno spazio impalpabile e allo stesso tempo concreto che aggiunge una terza dimensione alla narrazione. La formazione del gruppo è ridotta al minimo (batteria, tastiere e chitarra) e questo rende asciutto ma non eccessivamente spigoloso il suono, che contrasta con lo stile comunque ricco e ridondante della scrittura. La musica accompagna la voce di Franz Casanova, ci guida nella storia senza mai sopraffarla; resta invece al suo servizio alternando momenti cupi ad atmosfere sognanti e leggere, quasi bucoliche. Seguendo la progressione degli eventi si fa spettrale, cambia peso, culmina nell'agghiacciante rivelazione finale e si dissolve, come il regno del principe Prospero.
Al cd è ovviamente allegato il testo del racconto in italiano e inglese, in un libretto illustrato e curato graficamente da Siro Garrone. L'ascolto ideale è di notte, in cuffia e possibilmente al buio, se non vi spaventate troppo. Gli sviluppi dei fonodrammi possono essere interessanti, e dopo i Racconti del Mistero e del terrore si potrebbe pensare di riproporre classici della narrativa, riletti grazie alla musica, liberando nuove interpretazioni possibili. Speriamo allora che questo non resti un esperimento ma si consolidi e includa nuove opere.
Se poi questa estate vi capitasse di trovarvi dove suonano Il Babau & i Maledetti Cretini, andate ad assistere ai fonodrammi dal vivo, lì è la musica a prendere il sopravvento, e tutto cambia nuovamente.


(Il Babau & i Maledetti Cretini “La Maschera della Morte Rossa”, 2013 -Volo Libero)

sabato 25 maggio 2013

Rinascite: Andre Agassi, "Open"

Open, come i quattro tornei di tennis che compongono il Grande Slam.
Ricordo Andre Agassi negli anni '80 e '90, coi suoi capelli identici a quelli di Limahl, le sue magliette oversize dai colori fluo e i pantaloncini di jeans. In un mondo tradizionalista e d'elite come quello del tennis lui spiccava come una specie di énfant terrible. A me sembrava un fico che vinceva sempre. La realtà, a leggere questa (auto)biografia era ben diversa. Essere vittoriosi in un match non significa conquistare un torneo, e conquistare un torneo non significa essere dei “vincenti”.
Da così...
“Open” è un libro appassionante, sia per l'abilità di J.R. Moeringer -il giornalista e scrittore vincitore di un premio Pulitzer che l'ha curata in collaborazione con il protagonista- sia per gli eventi narrati, che sono spesso tanto strani da far pensare che si tratti d' invenzioni.
La scelta di un ghost writer (anche se non troppo ghost) appare dopo qualche tempo dalla lettura quasi un'esigenza: qualcuno estraneo alle vicende può mettere ordine in emozioni che per chiunque sia direttamente coinvolto risultano difficili da controllare sulla pagina scritta, senza cadere nella trappola dell'autocommiserazione e del patetismo.
Dal capitolo UNO, in cui troviamo un giovanissimo Andre alle prese con una macchina lancia palle costruita dal padre per allenarlo, seguiamo la sua evoluzione personale e sportiva che lo porterà ad essere non solo il numero uno del tennis mondiale per parecchi anni, ma anche un uomo felice nel suo privato, sposato con Steffi Graf. La sua non è stata (come per nessuno) una strada facile e lineare, a partire proprio dal rapporto con un genitore bizzarro, lunatico, imprevedibile e intimamente violento, ossessionato dal tennis e deciso a fare dei suoi figli dei campioni. Il tennis era per il piccolo Andre ed i suoi fratelli il sortilegio di una strega maligna, una magia a cui non riuscirono a sottrarsi. Anche per chi ha molto talento (e la consapevolezza di possederne) un peso del genere può diventare insopportabile e frustrante e dare come risultato una lunga serie di sconfitte brucianti e vittorie incerte prima di imboccare definitivamente la strada della realizzazione.
...A così
Così è successo a lui, vinceva match su match e poi cadeva all'ultimo momento, roso dai dubbi e dalla paura. Agassi racconta il timore delle reazioni paterne, l'odio per il tennis, il trasferimento forzato in un surreale collegio per giovani tennisti. E poi la fatica di gestire (sin da adolescente) i rapporti con la stampa, la spettacolarizzazione dei media che trasforma lo sport in pettegolezzo, le difficoltà per trovare un allenatore che capisse come migliorare il suo gioco e la rivalità con i colleghi (primo tra tutti il sempre vittorioso -ma oltremodo antipatico- Sampras). L'atmosfera dei match è resa perfettamente, anche alle pagine più tecniche in cui sono riassunti interi tornei risultano godibili. Perfino chi non conosce il tennis e non lo pratica si troverà sicuramente a cercare le singole partite su youtube, per trovare il momento in cui Agassi ha fatto una certa azione vincente o -viceversa- ha perso il controllo ed è andato a pezzi.
J.R. Moeringer
Le questioni personali sono ovviamente le più appassionanti: non parlo tanto delle relazioni sentimentali (tra le più note quella con Brooke Shields sfociata in un breve matrimonio), ma di quel continuo disfarsi e ricostruirsi fisico e psicologico fatto di fallimenti, accettazione, speranze e a volte successo. La vita privata e atletica di Agassi sono strettamente legate, non c'è tra esse una separazione; tra le persone che condividono il suo cammino emerge Gil Reyes, un vero e proprio padre, scelto da Agassi per sostituire il genitore pazzoide; Gil si prende cura di lui, lo sostiene nelle sue fragilità e lo perdona per i suoi errori. Altro personaggio fondamentale è Brad Gilbert, tennista di limitato talento ma dal carattere deciso, con una visione cristallina e un'idea ben precisa di quello che Agassi deve fare per diventare Agassi. L'incontro con lui è la svolta decisiva e definitiva verso il successo: memorabile è il primo colloquio tra loro che avviene in un ristorante italiano appositamente scelto da Andre, durante il quale Gilbert mostra una fissazione per la birra americana e non potendola ordinare in un locale che serve solo vino, se la va a comprare in un minimarket vicino.
La scelta operata dagli autori è stata quella di raccontare i fatti essenziali con estrema sincerità, includendo anche episodi imbarazzanti -a volte comici a volte drammatici- senza i quali si sarebbe restituita un'immagine più eroica, più smargiassa e luccicante ma non del tutto veritiera. Open, come aperto, sincero. Non vi sono in questa cronaca giudizi, pettegolezzi o recriminazioni, invece, una giusta dose di sentimentalismo; le quasi 500 pagine scritte al presente indicativo sono affascinanti, avvincenti e -posso assicurare- ispirano a guardare la propria vita in modo diverso, ad analizzare i propri errori ricorrenti come sconfitte tennistiche e a trarne conclusioni costruttive.
Posso immaginare che per Andre Agassi la stesura di questo libro sia stata un momento di catarsi. Per me la lettura è stata quasi curativa.


(Andre Agassi con J.R. Moeringer “Open” 2011 Einaudi)

giovedì 25 aprile 2013

Twain and Puppets

Che meraviglia, due delle mie passioni, la letteratura e i burattini si sposano in queste fotografie di un pupazzo gigante di Mark Twain...Bellissimo!

martedì 23 aprile 2013

Giornata Mondiale del Libro!

Oggi è la Giornata Mondiale del Libro, indetta dall'Unesco. Trovate tutte le informazioni relative                       a questo link .

martedì 2 aprile 2013

A piedi nudi nel fango: "The hungry tide", Amitav Ghosh

Quando devo giudicare l'opera di un artista (scrittore, pittore etc.) non occidentale sono un po' in difficoltà. Nonostante la globalizzazione e la diffusione degli stili di vita del mondo occidentale la cultura profonda di un paese continua fortunatamente ad influenzare le arti nella loro struttura profonda e solo conoscendola, almeno in parte, si possono capire determinate strategie e scelte artistiche. La mia conoscenza dell'India è limitata alla lettura dei “Libri della Jungla” di Kipling, "A Tiger for Malgudi" di Narayan, “I figli della mezzanotte” di Rushdie, la frequentazione di qualche spettacolo di danza e canto. Quindi prendete il mio giudizio con le pinze, potrebbe essermi sfuggito qualcosa di fondamentale.

Amitav Ghosh è diventato molto noto negli ultimi anni grazie alla trilogia della Ibis, iniziata con la pubblicazione del corposo “Mare di papaveri”. Personalmente ho un (deprecabile) pregiudizio nei confronti dei libri molto lunghi (i "mattoni"), sono intimamente convinta che per quanto bene possano iniziare, verso la metà della storia l'ispirazione dello scrittore si appannerà e io mi annoierò. L'esperienza folgorante di un libro corposo com “Le correzioni”di Johnatan Franzen e  le entusiastiche recensioni della trilogia della Ibis avevano creato in me notevoli aspettative rispetto a “The hungry tide”. Mi immaginavo immersa in una narrazione affascinante, visionaria, quasi mistica, in cui il fiume diventava un simbolo di vita e di magia.
Il sesto romanzo di Ghosh, tradotto in Italia col titolo di “Il paese delle maree” è ambientato nel Sundabaran, nel Golfo del Bengala, dove le maree che si mescolano all'acqua del fiume creano e modificano continuamente il paesaggio. Piya è una cetologa i cui genitori sono emigrati dall'India negli Stati Uniti, ed è arrivata in questa parte del mondo per studiare l'Orcaella, un delfino di fiume. Incontra su un treno Kanai, un traduttore di Kolkata, che si sta recando a Lusibari, una delle isole del Golfo, da una sua anziana zia, la quale ha trovato un taccuino del defunto marito destinato a lui. Per entrambi i protagonisti le cose non andranno come avevano inizialmente pensato e si ritroveranno a Lusibari.

Nonostante abbia riassunto in pochissime righe la trama, la storia è piuttosto complessa, e dal primo incontro tra Piya e Kanai inizia a dipanarsi in tutte le direzioni, sia fisiche che temporali, inglobando le loro vicende personali, la storia dell'India, le sue complesse tradizioni, le questioni molto attuali che contrappongono lo sviluppo economico (che per gran parte della popolazione indiana corrisponde ancora oggi alla sopravvivenza) e la conservazione dell'ambiente, fino a considerazioni politiche. I personaggi sono archetipi portatori di queste contrapposizioni: Piya vuole difendere l'ambiente e gli animali, ma non ha mai vissuto in India, non ne conosce che in parte le tradizioni e la cultura e non è consapevole del fatto che per buona parte dei suoi abitanti la natura è spesso un nemico. Kanai è d'altronde immagine dell'India moderna e rampante che dell'occidente ha assunto i costumi e sfrutta il lato commerciale, cercando d'ignorare -pur conoscendoli- i modi di vita tradizionali dei suoi conterranei rappresentati da Fokir, un pescatore analfabeta, più giovane di Kanai che rifiuta la sua amicizia e stabilirà invece un legame profondo con Piya, con la quale si capisce solo a gesti. Anche Mashima e Nirmal, gli zii di Kanai, portano la contrapposizione tra la concretezza della vita, anche politica, disposta ad accettare dei compromessi e l'idealismo (incorruttibile) delle teorie.
Questa ricchezza di temi si riflette nella struttura narrativa stratificata a diversi livelli: su tutti domina il narratore onnisciente, al quale si affianca per gran parte del romanzo la narrazione in prima persona del diario di Nirmal, un lungo flashback sulla storia del Sundabaran in cui sono inseriti molti versi di Rainer Maria Rilke che forniscono un'ulteriore lettura degli eventi passati e presenti; Bonbibi, divinità Hindu delle foreste è invocata più volte, e la sua battaglia contro il demone Dakkhin Rai raccontata con una recita e poi con una sorta di poema, cui si aggiungono una corposa quantità di nozioni di cetologia e geologia. La stessa presenza di Fokir trasforma l'azione e la prosa: quando lui e Piya sono insieme da soli la narrazione diventa visiva, quando i personaggi hanno una lingua comune, naturalmente il racconto passa attraverso discussioni e digressioni concettuali. Ghosh controlla con abilità questa quantità consistente di materiali e di tecniche, non lascia capitoli aperti inutilmente e tira le fila di ogni episodio. Conosce alla perfezione la teoria del romanzo e si muove senza apparenti difficoltà attraverso l'architettura immaginifica della sua creazione. Predilige la narrazione in terza persona e spesso rinuncia al discorso diretto anche quando sembrerebbe la soluzione più logica, che contribuirebbe ad alleggerire la narrazione stessa ed a farci conoscere meglio i personaggi. 
In realtà è questo un punto debole dell'opera: con l'eccezione di Fokir -del quale sappiamo pochissimo e che pure riusciamo a comprendere- le personalità dei protagonisti non emergono in modo convincente. Piya e Kanai sono solo simboli: il loro rapporto, le ferite che portano dal passato, il modo in cui lui s'innamora di lei sembrano decisi a tavolino; i particolari personali sembrano aggiunti per rendere questo matrimonio combinato digeribile ad un pubblico occidentale. Non è un caso che caso tutte le contrapposizioni illustrate sopra siano incarnate dai poli di genere (uomo-donna), c'è un disegno molto consapevole. 

La scrittura è pedante nella sua precisa descrizione di ogni cosa, dalla stoffa a scacchi che Fokir tiene nella sua barca con vari usi, ai delfini, all'arrivo di un ciclone, alla maniera in cui sono riportati dati scientifici e storici che sfiora il nozionismo puro. Lo scrittore lascia poco o niente all'immaginazione del lettore, che si sente sempre guidato da un accompagnatore pignolo e zelante preoccupato di mostrare tutto ciò che c'è sul programma della gita, imponendo la propria visione. Impossibile sgarrare, non è permesso astrarsi e fantasticare. Vi è anche un'eccessiva auto indulgenza nella conservazione di tanti episodi (e tante pagine) che nulla aggiungono alla storia, ma che allungano un brodo già abbastanza abbondante. Tanto per fare un esempio, la descrizione di come Piya si è procurata il binocolo con cui perlustra il fiume è per il lettor etanto lunga quanto inutile. L'idea di fondo che ogni cosa sia collegata e contribuisca alla realizzazione di un grande quadro è affascinante, ma personalmente ho trovato talvolta oscuri i motivi per i quali alcune informazioni ci vengono fornite.

Non posso dire che il libro non mi sia piaciuto, ma neanche che mi abbia entusiasmato. In quattrocento pagine scritte in corpo 10 o 11 il climax e l'anti-climax sono praticamente assenti: forse anche questa è una strategia culturale, che rifiuta i picchi e crede nello scorrere continuo degli eventi, nella continua trasformazione o ancora una volta lo scrittore prende prepotentemente il timone e ci priva di ogni vera emozione. L'impressione che ho ricevuto è quella di un autore estremamente consapevole della propria abilità e delle cose che vuole dire, ma assorbito com'è dal suo disegno filosofico non riesce o non vuole arrivare ai sensi, al cuore dei personaggi e delle situazioni. Perfino la bellezza e la magia del fiume vengono soffocate, lo scrittore preferisce indagarlo come uno scienziato o come uno storico, piuttosto che osservarlo come un poeta o un pescatore.
La letteratura non è fatta solo di testa, ma anche di pancia: di quest'ultima in "The hungry tide" ce n'è ben poca.

(Amitav Ghosh, "The hungry tide", 2005 Mariner Books; edito in Italia come "Il paese delle maree" Neri Pozza Editore)

sabato 30 marzo 2013

Liebster Award parte seconda

Ben due nomination per il Liebster Award, fantastico! E quella del blog Lafolle+Jumbolo+Alessio è particolarmente lusinghiera visto che Jumbolo, il blogger che mi ha premiato, al contrario di Monty non mi conosce nemmeno. Quindi, WOW.

Visto che ho già  scritto undici cose su di me, citato i blog che avrei premiato e prodotto undici domande per i relativi blogger, mi limiterò all'essenziale, cioè i punti 1 e 2 della lista che trovate nel post precedente:

1) Ringraziare chi mi ha premiato
Grazie Jumbolo! Non pensavo che leggessi il mio blog, tanto meno che ti piacesse. Grazie davvero.

2) Rispondere alle domande di chi mi ha premiato

1) Viaggio mai fatto ma molto desiderato
     Mongolia e Russia

2) Libro preferito
Uno solo?! Non è possibile! "Mattatoio 5", "Huckleberry Finn", "Le sirene di Titano"...

3) Città preferita
Immagino tu intenda sulla Terra. Anche qui, impossibile sceglierne una: Atene, Lisbona...

4) Film preferito
Nessun dubbio, "Apocalypse Now"

5) Squadra del cuore (una qualsiasi, di qualsiasi sport)
Sportivamente atea, se costretta sceglierei la nazionale greca, per qualunque sport

6) Serie Tv preferita
Starsky e Hutch; in tempi più recenti Life on Mars

7) Nazione dove vorresti espatriare
Preferirei cambiare pianeta

8) Pratica sessuale preferita
Perchè, ce n'è più d'una?

9) Infradito o ciabatte a fascia?
Infradito, perbacco!

10) Pizza o mandolino?
Perchè scegliere?

11) Disco da portare sull'isola deserta
Se fossi sull'isola deserta non avrei bisogno di dischi, mi basterebbero i suoni del mare e della natura

Ecco fatto! Ringrazio ancora copiosamente Jumbolo e Monty per la citazione!

Liebster Award

Stamattina ricevo un commento di Monty, collega blogger di Bottle of smoke, il quale magnanimamente mi ha premiata, da sola con questo blog ed in coppia con Ciambella per Doppiaazione al Liebster Award, un premio che serve a far conoscere blogs con meno di 200 followers. Le Sirene di Titano ci casca a pennello. Ma, noblesse oblige, tale citazione ha un prezzo. Infatti, chi venga premiato entra in un meccanismo per il quale deve fare poi le seguenti penitenze (copincollate di peso dal blog di Monty):

1)ringraziare chi mi ha assegnato il premio citandolo nel post 
2) rispondere alle undici domande poste dal blog che mi ha premiata
3) scrivere undici cose su di me
4) premiare undici blog che hanno meno di 200 followers
5) formulare altre undici domande a cui dovranno rispondere gli altri blogger
6) informare i blog del premio.

Ok, partiamo.

1) Ringraziare: 
Denghiù Monty, Denghiù.

2) Rispondere alle domande poste da chi mi ha premiato:


1) se potesti tornare indietro nel tempo con ciò che sai ora, come impiegheresti questa esperienza?
Perderei meno tempo e andrei dritta al bersaglio

2) con quale personaggio letterario/cinematografico ti identifichi?
Billy Pilgrim, Simon Konianski 

3) qual'è il tuo peggior difetto (e non fate i furbi con risposte del tipo: "sono troppo buono/a, eh")?
Mancanza di coraggio di fare solo quello che mi piace

4) cosa ti aspetti dagli altri?
Quello che mi aspetto da me stessa

5) perchè un blog nell'era di facebook e twitter?
Sono tre cose diverse, non paragonabili

6) da uno a dieci, che priorità dai nella tua giornata all'aggiornamento del blog?
Monty, ancora con 'sta storia del "da uno a dieci"? Otto, ma poi l'aggiorno quando ho tempo...

7) da uno a dieci, quanto ti piaci?
Monty, quanto "Marie Claire" hai letto ultimamente? A volte dieci a volte zero...

8) l'evento che non ti sei mai perdonato di aver perso
La rivoluzione francese

9) il tuo disco più preferito
Non saprei il titolo, ma l'autore sì: Bob Dylan

10) la sliding door più importante della tua vita è stata quella volta che...
Nessuna sliding door nella mia vita

11) chiediti se sei felice e datti una risposta
Fatto

Santo cielo, siamo solo al punto 3? Cos'era? Ah, sì...

3) Undici cose di me:

1) Adoro il fritto
2) Odio viaggiare ma vorrei andare in Mongolia e Russia
3) Non ce la faccio a fregarmene
4) Il mio primo pensiero del mattino è: "Oggi pomeriggio posso fare il pisolino?"
5) Nonostante la raggiunta maggiore età ho degli inquietanti lati adolescenziali
6) Se dovessi dire sempre quello che penso, litigherei con più gente di quanto già non  
     faccia ora
7) Ci provo, ma ancora non ci riesco
8) Voglio leggere e scrivere libri
9) Vorrei vivere in una casa come quella di "Le balene d'agosto"
10)Sono esagerata, ma poi me la faccio sotto
11) In realtà non sono umana, vengo da Sirio 9

4) Premiare undici blog con meno di 200 followers:

Questo è un pò difficile...In realtà non leggo così tanti blogs...metto in ordine assolutamente casuale quelli che mi vengono in mente, che sono poi quelli che seguo. 

2) Kanonenfrau
3) Il teorema di Dionea
4) Il bicchiere della staffa
5) London Calling
6) Segnali di comunicazione
Avrei voluto mettere "Un garage pieno di libri" ma ha già 218 follower...

E poi non me ne vengono più, semmai li aggiungo più in là. Dove siamo? Punto 5, ovvero:

5) Undici domande per gli altri blogger

1) Hai letto "Mattatoio 5" di Kurt Vonnegut?
2) Approssimativamente, quando finirà il mondo?
3) Hai un amico/a immaginario? Se sì, come si chiama? Lui/lei ha letto "Mattatoio 5"?
4) Se non fossi nato dove sei nato, di quale nazionalità avresti voluto essere?
5) Una cosa che ti riesce veramente bene e lo sai (e non fare il modesto, la modestia è vanità)
6) Se dovessi rinascere vorresti cambiare stato materico? Se sì, vorresti essere liquido o gassoso?
7) Il tuo scrittore/scrittrice preferito
8) Onestamente, pensi di essere sempre nel giusto?
9) Un personaggio dei libri che avresti voluto essere
10) Una cosa che vuoi fare a tutti i costi prima della luce viola (se non hai letto "Mattatoio 5" fallo                      
      ora)
11)Un tuo sogno che si è avverato e uno che non si è avverato

Ecco fatto. Non resta che comunicare ai fortunati la loro nomination...
















domenica 10 febbraio 2013

Letture miste

Che i libri accompagnino i nostri stati d'animo e le nostre vicende personali è una banalità. Tuttavia, in questi giorni di confusione e depressione, mi sono resa conto che anche le mie letture sembrano seguire una linea spezzata e schizofrenica. In altre parole, mi sono resa conto che nei periodi in cui reggo bene allo stress ed ai problemi ho anche un bel libro, uno solo, ad attendermi e farmi compagnia, mentre a momenti carichi di frustrazione corrispondono anche letture frammentate e insoddisfacenti.

Ho iniziato il 2013 leggendo "The day of the triffids" di John Wyndham, un classico della fantascienza inglese degli anni cinquanta. Ci ho messo tantissimo a finirlo considerato che non supera le duecento pagine di lunghezza, e alla fine mi sono trovata delusa, tanto che non ne ho nemmeno scritta la recensione. Riassumendo i motivi del mio giudizio negativo: l'idea, il seme da cui parte la storia è brillante, geniale e ha portato nel tempo a molteplici letture che vanno dalla critica al modo in cui l'uomo sfrutta la natura, al timore delle guerre tecnologiche che si combattono (o si combattevano) nello spazio sopra la terra le cui conseguenze ultime non sono mai totalmente sotto controllo. Le prime pagine, col risveglio del protagonista in un mondo di ciechi e la sua avventura londinese alla ricerca di cibo, fino all'incontro con la giovane Josella sono abbastanza appassionanti, e fanno ben sperare. Successivamente però il nucleo narrativo perde forza e compattezza, e l'obiettivo dichiarato del protagonista di ritrovare la sua amata risulta una debole motivazione per seguirlo in un viaggio abbastanza noioso, durante il quale egli si rivela una semplice funzione di personaggio ed i poveri trifidi nient'altro che una pericolosa scenografia.  

Lasciatomi alle spalle con un certo sollievo Jonh Windham mi sono buttata su "The Hungry Tide" di Amitav Ghosh, scrittore indiano che gode di ottime critiche. Il mio docente di letteratura inglese ha inserito proprio questo titolo nel programma dell'esame universitario che devo sostenere quest'anno. Gli scrittori indiani mi affascinano e quel poco che ho letto di Salman Rushdie e Narayan mi aveva entusiasmata. Purtroppo Ghosh per ora mi sta deludendo e annoiando. A differenza dei suoi colleghi egli sembra non essere interessato a trasmettere (almeno, non in questo libro) la magia della cultura indiana, delle leggende, delle filosofie del suo paese, che nonostante la sua durezza lo rendono comunque affascinante. Nè  si dimostra interessato ad approfondirne i temi sociali che pure sono molto seri ed articolati. Nel libro è descritto un luogo dominato dal fiume -che dovrebbe essere molto evocativo- ma non sembra in grado di farne nulla. Penso al fiume di "Huckleberry Finn", di "Cuore di Tenebra", de "Il terrore corre sul fiume", in questi libri è magico, simbolico, archetipico. Nel romanzo di Ghosh non è niente di questo. Anche in questo caso la partenza non è male, i due protagonisti sembrano offrire spunti interessanti per futuri sviluppi, anche sentimentali; poi è come se tutto si fermasse e i loro caratteri rimangono appena abbozzati. Una recensione che ho letto su internet sottolinea come per la descrizione di un pezzo di stoffa di uso piuttosto comunque in India, Ghosh utilizzi la bellezza di 400 parole, mentre personalmente posso dirvi che leggere quattro o cinque pagine di descrizione di un cannocchiale professionale e di come la protagonista lo abbia scelto ed acquistato  mi ricorda di quando tradussi un romanzo Harmony in cui la scrittrice, per allungare il brodo insipido del suo racconto, aveva copiato dall'Enciclopedia Britannica una serie di pedanti descrizioni della flora e della fauna australiane, generando una serie di pagine totalmente inutili ai fini della storia. D'accordo, anche Dostojevsky partiva per la tangente qualche volta, ma era Dostojevsky e forse le sue digressioni erano più interessanti della stoffa a scacchi e dei cannocchiali professionali.

Mentre mi sottopongo a "The Hungry Tide" decido di darmi respiro con "Ieri" di Agotha Kristof, che certamente ha uno stile più consono al mio attuale stato d'animo e ben altro valore letterario. Il problema è che è così triste che mi deprimo ancora di più.
Stamattina ho preso in mano "Open", l'autobiografia di Andre Agassi consigliata anche da persone interessate alla letteratura più che al tennis. E' l'ennesima scappatoia dal libro di Ghosh, e spero mi tenga a galla mentre lo finisco, visto che per dare l'esame devo leggerlo tutto. Vi terrò informati sugli sviluppi.




mercoledì 23 gennaio 2013

Questione di finale

Una sera, la settimana prima di Natale, eravamo a casa del Pizza e io e lui abbiamo iniziato una delle nostre alte disquisizioni letterarie post cena, tema il finale. Notavo come alcuni libri che partono bene e proseguono benissimo hanno dei finali deludenti, ed ho citato “La musica del caso” di Paul Auster come esempio: una storia interessante, ben scritta, che però finisce improvvisamente e senza motivo con un incidente stradale. Un trucco, una facile scappatoia, come interrompere la scena di un tentato suicidio con una telefonata. Anche la vicenda terrestre di Isserley, protagonista di “Sotto la pelle” s'interrompe bruscamente con un incidente, ma se il personaggio di Michel Faber (che già aveva chiuso “A voce nuda” in abbastanza brutalmente) è tragico e sappiamo che difficilmente se la caverà con un lieto fine, la conclusione di Auster mi fa pensare allo scrittore che molla il colpo perchè si è stufato di quella storia o ha di meglio da fare che arrovellarsi su una conclusione degna o viene pressato dall'editore per consegnare al più presto il manoscritto.

Il Pizza dal canto suo dice che con l'eccezione dei gialli e dei libri costruiti su misteri da risolvere, il finale non è per lui importante come un buon inizio o lo svolgimento di una storia. Posso dargli ragione, almeno in parte: specialmente se ci si cimenta in letture corpose, tipo “Guerra e Pace” o “Il petalo bianco e il cremisi”, quando si arriva alla conclusione probabilmente il finale non ha più tanta importanza.
“Le correzioni” di Jonathan Franzen (un volume abbastanza corposo) ha un finale lungo che ci racconta cosa accade dopo l'evento culminante, atteso per tutto il libro, accompagnandoci dolcemente verso l'ultima pagina. Niente scossoni, niente colpi di scena epocali, la vita dei personaggi proseguirà dopo che noi saremo arrivati al termine.
Un finale ben costruito o a sorpresa sembra più indispensabile nei racconti e romanzi brevi. Quando lessi “Orgoglio e Pregiudizio” di Jane Austen,ero presissima dalla storia, ma nel momento in cui diventa chiaro che Darcy ed Elizabeth si sposeranno, le ulteriori pagine di spiegazione di come si riaggiustano tutti i conflitti, mi parvero noiose. A pensarci bene, se la Austen avesse voluto scrivere una conclusione veramente d'impatto (anche se forse i suoi contemporanei non l'avrebbero gradita), avrebbe potuto lasciare i suoi eroi sospesi nel mezzo del loro ricongiungimento, facendoci solo immaginare quello che sarebbe successo in seguito.

Tornando alla letteratura contemporanea, in libri come “La cena” di Herman Koch il finale è costruito passo passo attraverso la narrazione, riusciamo ad immaginarcelo, ma quando effettivamente si materializza lo troviamo comunque sconvolgente e non riusciamo a lasciare il libro finchè non siamo proprio all'ultima parola.
Alcuni scrittori partono dalla fine per raccontare la storia a ritroso e l'interesse del lettore è scoprire cosa ha portato a questo finale. Più rari sono i casi in cui il finale viene ripetutamente svelato senza incidere sull'interesse della storia. Uno, forse l'unico, certamente geniale, è “Mattatoio 5”. La storia di Billy Pilgrim si può rappresentare con il simbolo dell'infinito, si reitera continuamente dall'inizio alla fine e viceversa e con montaggi incrociati che destrutturano completamente il senso del tempo e danno il senso che tutto stia accadendo contemporaneamente. Sappiamo praticamente da subito quale sarà il destino del protagonista, come e quando morirà, eppure continuiamo a seguire la storia. Il romanzo di Kurt Vonnegut è un esempio di scrittura circolare, quindi il finale è un'entità decisamente relativa, visto che tutto finisce e ricomincia continuamente.
Ha sicuramente ragione Pizza quando dice che i finali sono comunque limitati rispetto agli incipit ed agli svolgimenti, ma comunque un finale ci vuole. E' nell'economia del libro. Il finale è forse un bisogno più psicologico che una necessità narrativa. Forse la storia può vivere con un brutto finale o addirittura senza, ma il lettore, almeno io, ha bisogno di una conclusione che lo riporti nel mondo in modo coerente. E se non sono certa che un finale sorprendente, per astuzia o fantasia, possa migliorare un libro così così, una conclusione da poco è deprimente, come un paio di scarpe impolverate portate su un vestito costosissimo e alla moda. Insomma, lo scrittore deve mantenere la concentrazione fino alla fine.
Da un pò di tempo non m'imbatto nel finale aperto. Lo scrittore può evitare di dare una chiusura definitiva alla storia, di scegliere il destino dei suoi personaggi e lasciarlo intuire e determinare ai lettori. E' una tecnica molto fruttuosa in termini di commenti e discussioni (anche se leggendo alcuni forum pare di capire non sia gradita a tutti), e l'industria dei libri a puntate lasciando in sospeso la conclusione prepara il lettore al prossimo acquisto. E' interessante notare che nelle pubblicazioni contemporanee la parola “Fine” sia stata soppressa, come se effettivamente il finale avesse perso un po' lo status solenne dei classici. In letteratura, come al cinema, forse non esiste più una fine, ma un fluire delle storie e a noi lettori e spettatori è concesso conoscerne una parte per poter immaginare il resto, il prima e il dopo. E questo mi porta a pensare agli infiniti inizi e finali dei sequel e dei prequel, prima unicamente cinematografici ed oggi, soprattutto nella letteratura legata a fenomeni come “Guerre Stellari”, oggi sempre più frequenti. C'è sicuramente un'intenzione commerciale dietro a queste scelte -che secondo me invadono e annichiliscono alla lunga l'immaginario del lettore- ma anche un'incapacità del pubblico a staccarsi dai propri beniamini. Eppure, i personaggi più indimenticabili hanno bisogno di un finale. Per chiudere un libro e poterne aprire un altro totalmente diverso, per darci la possibilità di conoscere altri personaggi ed altri autori, e forse anche per evitare di assistere ad un'eventuale parabola discendente della narrazione.

Sarebbe interessante se voi lettori lasciaste nei commenti il vostro finale preferito, vi invito a farlo. Il mio è quello di “Mattatoio 5”. Lo estrapolo privandolo volutamente del senso che gli diede Kurt Vonnegut, perchè a me i finali aperti piacciono, per la possibilità di essere astratti, subliminali, multidimensionali. Dategli voi il significato che preferite!
Poo-tee-weet?


martedì 1 gennaio 2013

I migliori

Tra i lettori di questo blog alcuni sono appassionati di classifiche e qualcuno mi ha chiesto, nonostante non sia nelle mie inclinazioni, di  farne una personale dei libri migliori che ho letto nel 2012.
Ci ho pensato un pò. Impossibile, proprio non mi riesce. Per non deludere il mio pubblico però, ho fatto una scelta dei quattro libri/autori che più mi hanno emozionata e colpita, e vi ripropongo i titoli e qualche sensazione, mettendoli in ordine sparso, quindi non c'è un primo, un secondo etc. D'altronde trovo che siano scrittori ed opere così diversi tra loro che sia impossibile paragonarli. Se cliccate sul titolo potete leggere la recensione scritta subito dopo aver letto il libro, chissà se nel frattempo ho cambiato idea su qualcosa.  Buona lettura, Buon 2013!!

Alan Bennett, "La Signora nel Furgone" e "La Sovrana Lettrice". La mia formazione letteraria è di stampo anglosassone, ho iniziato coi romanzi di avventura di Stevenson e Kipling, proseguito con Oscar Wilde, Conan Doyle e i narratori horror ottocenteschi, qualche autore anglo-indiano (Rushdie, Narayan), ma dopo gli anni ottanta, la new wave degli scrittori dell'ecstasy e delle paranoie post adolescenziali mi ha un pò disamorata della letteratura del Regno Unito. Nick Hornby in particolare mi sembra molto sopravvalutato. Ma Alan Bennett è grandioso, acuto, divertente, scrive libri brevi ma succosi e non si limita ad osservare con l'occhio cinico dell'intellettuale distaccato, partecipa alla vita al punto di tenere nel proprio giardino per quasi vent'anni il furgone di una barbona per proteggerla dai vandali e raccontarne la storia con humour e tenerezza. Quando sono triste Alan Bennett mi consola.

Agotha Kristoff, "Trilogia della città di K". Ecco una vera scoperta del 2012. Erano anni che vedevo girare questo libro nelle mani di sconosciuti, ma non avevo la minima idea di cosa si trattasse. Poi un'amica me lo ha regalato. Non la ringrazierò mai abbastanza per avermi fatto conoscere quest' autrice incredibile, che con materiale limitatissimo (un tempo verbale, frasi brevi, pura descrizione dei fatti) è riuscita a raccontare l'invisibile agli occhi, la solitudine più profonda, il dolore che non si cancella mai, che cambia il cuore. Un libro durissimo, ci vorrà molta forza per leggerlo e non abbandonarlo, perchè a volte fa veramente male, ma sarete ripagati.

Dino Buzzati, "La Boutique del Mistero". Altra scoperta tardiva, ma almeno ci sono arrivata. Buzzati riusciva a dare forma all'inquietudine del quotidiano, a vedere l'ignoto dietro all'apparente banalità della vita, ma anche la favola, il miracolo, l'impossibile che, per chi ci crede, diventa realtà. Era nato a Belluno, ma lavorò e visse moltissimi anni a Milano, e la città si sente, si respira nei suoi racconti anche oggi che è tanto cambiata e non sembra aver più alcun legame con quella degli anni '50 e '60. Invece è ancora lì, nascosta in un angolo e pronta a saltarci alla gola, meno male. Mi sono appena regalata un cofanetto di due volumi di suoi racconti...

Herman Koch "La Cena". Bellissimo, appassionante, agghiacciante. Tutti siamo capaci di qualunque cosa. Per ciò che amiamo veramente saremmo disposti ad annullare tutto quello che abbiamo sempre pensato di essere. Dentro ogni uomo ed ogni donna moderni, borghesi, educati e ben vestiti, dietro ogni sorriso ed ogni convenzione sociale si nasconde un piccolo Neanderthal pronto a scattare e a difendere il suo territorio nella maniera più brutale. A dispetto di qualunque evoluzione. Uno di quei libri che non si riesce a smettere di leggere, ed ogni pagina è un gradino che scendiamo verso il baratro che è dentro di noi.