Dino Buzzati era veramente uno scrittore unico, dall'immaginazione caleidoscopica che ha saputo cogliere quanto di onirico si celi nelle nostre vite, insinuando nel lettore la consapevolezza di una realtà al di là di quella che viviamo, in cui ciò che vediamo, sentiamo e facciamo è parte di un più grande, ineludibile oscuro disegno, ed è sufficiente spostare leggermente lo sguardo per vedere dietro alla normalità come dietro una quinta teatrale, e convincersi che non c'è niente che sia realmente in nostro controllo.
Si tratta di narrazioni brevi e intense, sfuggenti come ombre, che nascono a volte da notazioni -anche autobiografiche- impressioni, altre volte sono visioni surreali; comunque non seguono il classico schema con colpo di scena finale. Una scelta questa che rende più sfumati i contorni e li priva di un'aspettativa risolutrice.
Ma ci sono anche favole, magari a sfondo religioso come "Il cane che ha visto Dio", che sembra la trascrizione di un racconto popolare, o sketch esilaranti dal finale inquietante come "Il disco si posò", in cui un umile parroco incontra gli alieni, o ancora fantasie minime che ribaltano la logica del conosciuto, come "Una goccia" o "Conigli sotto la luna".
Buzzati riesce ad essere un critico feroce della società, pur rimanendo -grazie al suo stile limpido in cui le considerazioni profonde sono tessute nelle fibre della storia- quasi esterno a ciò che racconta: in "Eppure bussano alla porta" mette in scena la fine di un mondo vetero borghese troppo preso da sè stesso per accorgersi si stare per sparire; si prende gioco delle convenzioni sociali in "Il corridoio di un grande albergo", e in "La ragazza che precipita" riflette con amarezza sulla disillusione dei sogni della giovinezza (ricollegandosi involontariamente e perfettamente con alcune vicende del recente passato italiano).
Non risparmia le figure della religione istituzionalizzata, che spesso (anche se non sempre) tratta con sfiducia, pur conservando un affetto quasi fanciullesco per la fede saggia ed ingenua degli eremiti e dei santi minori, coloro che vivono una religione lontana dai palazzi e dalle chiese, ma vicina all'uomo e alla natura.
Tra le pagine troviamo anche una bellissima, struggente poesia in prosa, "Inviti superflui", di cui ho pubblicato l'incipit qualche giorno fa.
Questi racconti vivono in un tempo al confine tra antico e modernità, tra il mondo ormai quasi mitico dell'infanzia e quello del presente, forse più inquietante ed in cui è più difficile accettare la presenza di quel "disegno" di cui parlavo all'inizio.
Dino Buzzati soffrì molto del continuo paragone con Franz Kafka, al quale veniva continuamente avvicinato. Questi scrittori hanno certamente in comune l'elemento fantastico, tuttavia trovo che sia estremamente riduttivo ricondurre al solo autore praghese tutti i lavori del nostro, non solo perchè i temi si somigliano solo superficialmente, ma anche perchè ci sono evidenti differenze tra le due produzioni, dettate sia da circostanze personali (ad esempio il rapporto col padre, che -al contrario di Kafka- per Buzzati non fu conflittuale), da questioni territoriali (Buzzati è molto legato alla cultura delle montagne, e si sente), sia da stili letterari e da ispirazioni diverse. Lo stesso tema del "disegno oscuro" a cui accennavo sopra, viene posto dall'autore praghese come una specie di complotto segreto, mentre negli scritti di Buzzati diventa qualcosa di altrettanto ineludibile ma più vicino a quello che chiamiamo destino.
Uno scrittore di cui forse ancora non s'è compresa l'importanza.
(Dino Buzzati "La Boutique del Mistero" 2000, Mondadori)