venerdì 31 gennaio 2014

Pulp Science Fiction: Fredric Brown, "Assurdo Universo"

A volte capita di leggere un libro e non rimanerne soddisfatti: apparentemente tutto funziona, dalla trama, alla costruzione della vicenda, al finale, però manca qualcosa. In questi casi -specialmente se si tratta di autori importanti- a volte resta il dubbio di essersi lasciati sfuggire qualcosa, di non aver afferrato il significato profondo della storia, per tonteria o per ignoranza. E' così che mi sono sentita concludendo “Assurdo Universo”.
Di Fredric Brown avevo letto con grande sollazzo “Marziani andate a casa!” e mi aspettavo una storia altrettanto scoppiettante e divertente. Questo libro è però molto diverso: mentre nel romanzo del 1955 il nucleo generante della storia è l'idea di un'invasione di piccoli alieni dispettosi e ficcanaso e delle conseguenze sul sistema di vita terrestre, in questo del 1948 il disegno è molto più ampio. Potremmo quasi parlare di “fantascienza filologica”, in quanto tutti i temi classici che sono stati sviluppati dalla sci-fi nei decenni successivi si trovano in queste pagine: mostri alieni che attaccano la terra, la conquista dello spazio, mondi paralleli, eccetera, eccetera. Non è un caso che il protagonista sia il direttore di una rivista di racconti di fantascienza, Keith Winton, conosciuto dai suoi lettori come L'uomo dei razzi. Egli, ospite del suo capo per il fine settimana, si trova nel giardino della grande villa di Catskill ad aspettare di vedere il lampo che segnerà l'arrivo di un missile terrestre sulla superficie della Luna. Un momento è lì a guardare il cielo e subito dopo si trova steso a terra. Non sa dove si trova (la casa del suo capo non è più lì) né come abbia fatto ad arrivare in quel luogo. Keith ritiene di essere ancora nel suo mondo, ma nonostante la somiglianza -non tarderà a scoprirlo- questo è decisamente un'altra cosa: i dollari sono fuori legge, per le strade passeggiano mostri viola alti più di due metri e il nome dell'editore della sua rivista non si trova sull'elenco telefonico...Per Keith è l'inizio di un'Odissea alla scoperta di una Terra sconosciuta e alla ricerca di un modo per tornare da dove è venuto, prima cercando di vivere una vita simile alla sua e poi, quando il tentativo fallisce, prendendo una strada che non si sarebbe aspettato di percorrere. Partendo dal ritmo sonnolento delle prime pagine di introduzione e poi di stupore del protagonista l'azione diventa più veloce man mano che si penetra nella logica della realtà che suo malgrado lo ospita, per accelerare definitivamente nel finale. Le invenzioni che mette in atto Brown per costruire la New York alternativa in cui precipita il nostro eroe sono brillanti, creano un meccanismo delicato e perfettamente funzionante in cui ogni cosa ha una sua spiegazione; gli basta poco per stravolgere il mondo come lo conosciamo pur mantenendone la stessa apparenza in superficie. La realtà altro non è se non una produzione della nostra percezione di essa e dei nostri pensieri, e come questi sono infiniti, così lo sono le realtà possibili. Il doppio finale è in senso letterario una vera ciliegina, delle due conclusioni una la conosceremo, mentre l'altra rimarrà ignota .
I personaggi a mio avviso rientrano in una serie di stereotipi e risultano un po' piatti. Keith Winton è simpatico, ma nonostante il cambiamento che subisce nel corso del libro non resta particolarmente impresso; il suo innamoramento per una collega (elemento che percorre tutto il libro fino alla fine), è pretestuoso, serve a spronarlo ma è poco credibile. Non ci sono a fronte di situazioni forti personaggi altrettanto interessanti. Forse il migliore è Mekki, un cervello meccanico che incarna l'onniscenza del narratore. Ma anche questo apparente difetto può essere ricondotto a un gioco filologico-letterario: Brown era un autore pulp (genere basato su molta azione, in apparenza poco pensiero e avaro di introspezione psicologica), ha scritto un romanzo in stile pulp, il suo personaggio è un redattore di riviste pulp, che si muove in un mondo pulp, un gioco di specchi che riproducono la stessa immagine all'infinito.
“Assurdo Universo” non è quello che potrebbe sembrare, e buona parte della sua originalità sta in questo involucro di cartapesta colorata che protegge un contenuto di lusso.
Anche se io non l'ho goduto in modo particolare, quale che sia il motivo non vi sconsiglio affatto la lettura, che anzi, per tanti intenditori ed amanti di Fredric Brown è stata folgorante. Poi, se volete, fatemi sapere che ne pensate.


(Fredric Brown “Assurdo Universo” Urania Collezione n.16, Mondadori 2004)

domenica 26 gennaio 2014

Fiori di carta: Kurt Vonnegut "Guarda l'Uccellino"

Andrew Wyett "View from the sea"
Dopo la morte di Kurt Vonnegut sono stati pubblicati tre libri di racconti inediti. Il primo, “Ricordando l'Apocalisse” (Feltrinelli 2008) era forse quello con l'idea più forte e verteva sui temi che lo resero famoso, la guerra e la sua insensatezza, la violenza e la natura dell'uomo. I racconti, secondo l'introduzione del figlio Mark, curatore del volume, erano senza data. Il successivo “Baci da 100 dollari” (ISBN 2011) raccoglieva invece storie pubblicate da diverse riviste all'inizio della carriera di Vonnegut negli anni cinquanta. Questo libro (che con Vonnegutiana tempistica è stato pubblicato per terzo mentre è del 2009) completa questo cerchio narrativo e temporale, presentandoci una serie di lavori rifiutati dalle stesse riviste.
Come lui stesso scrive nella lettera a Walter J. Miller che apre il volume, ciò che Kurt cercava in quel momento era di piacere al suo agente letterario. Che questa fosse o meno la realtà, la sua voce si sente in queste storie già forte e chiara. Le situazioni sono semplici, a volte addirittura banali, eppure Vonnegut riesce a farcele vedere da una prospettiva sorprendente e a trarne eventi che fanno da cardine nella vita dei personaggi. I racconti si sviluppano quasi da soli portando a finali non sempre a sorpresa. Sono quasi favole, in cui gli eroi sono persone per bene, oneste, che rappresentano le doti e le qualità dell'uomo e della donna medi. Ecco allora Ellen Bowers, la casalinga protagonista del primo racconto “Confido”, alle prese con un'invenzione del marito o Francine Pefko, la nuova segretaria di Fuzz Littler che col suo ottimismo mostrerà il lato rosa della vita al suo ingrigito capo. E ancora Elsie Strang Morgan, scrittrice per caso che rifiuta il successo e la rivoluzione che porta nella sua vita privata o i coniugi Elliot, re e regina buoni e onesti precipitati in un diabolico tranello ad opera di terribili maghi cattivi (i poliziotti corrotti della città di Ilium), ma che verranno salvati dalla loro fata buona.
Questa scelta dei protagonisti e delle vicende, calate nella quotidianità e lontane anni luce dalle atmosfere dei libri che verranno, concluse da finali non eclatanti ma netti e a volte dolcemente consolatori, è un inno alla felicità perduta di Vonnegut stesso. Egli, orfano della madre e giovanissimo reduce della Seconda Guerra Mondiale scrive di quell'ingenuità, quella normalità, quella disperata fiducia nel futuro e nell'America che lui e milioni di altri giovani reduci hanno perduto per sempre. Così, non è ottimismo facilone quello che sprizzano questi personaggi, è nostalgia per un mondo ideale in cui prima si poteva credere, ma che dopo la Seconda Guerra Mondiale diventa solo illusione. Quando in “Gridalo dai tetti” Elsie Strang Morgan dice: “Voglio le cose com'erano e come non potranno essere mai più. Voglio essere ancora una piccola donna di casa dolce, timida e sciocca.” è in realtà Vonnegut a parlare, a chiedere che gli sia restituita l'innocenza. E in quest'ottica anche “Formiche pietrificate”, racconto quasi fantascientifico ambientato in
un'improbabile Unione Sovietica non incarna banalmente il timore del pericolo rosso degli Stati Uniti negli anni cinquanta, ma è un monito e un'amara constatazione che vale per tutti ( a riprova, i nomi dei fratelli protagonisti possono essere letti sia all'Americana che alla Russa).
“Ciao Red” è la storia di un ritorno, proprio come quello di Kurt dalla guerra, ritorno ad una città non amata alla ricerca di una rivincita; costruito sulla struttura della tragedia greca, si conclude inaspettatamente con un gesto simbolico e perfetto nell'economia della narrazione. “Il re e la regina dell'universo”, narra il passaggio dal mondo dell'infanzia a quello dell'età adulta di due giovani rampolli dell'alta società, la presa di coscienza che il mondo è molto diverso da come pensavano, che c'è anche la sofferenza, ma con essa scoprono anche l'ipocrisia che li circonda e il vero amore. Forse è l'unico racconto veramente ottimista della raccolta, in cui l'autore cerca di convincersi che le esperienze dolorose da lui vissute non siano state del tutto inutili.
E' sempre difficile separare Vonnegut dalla sua opera, e ancora di più da questi racconti che con la loro struttura leggera e lo stile scorrevole si leggono in un fiato e lasciano trasparire chiaramente l'uomo alla macchina da scrivere. “Guarda l'uccellino” è un buon libro per scoprire l'opera dello scrittore di Indianapolis anche se è diversissimo dalla sua produzione successiva, che lo vedrà rifugiarsi nei mondi alternativi e del paradosso e diventare -pur conservando il suo meraviglioso umorismo-sempre più amaro e disilluso. Chi invece lo conosce sarà contento di incontrarlo ancora una volta, come Billy Pilgrim, in un altro tempo della sua vita.
Resta da dire che forse un autore del genere meriterebbe da parte di un editore come Feltrinelli almeno due righe di introduzione, magari ad opera del traduttore, il sempre bravo Vincenzo Mantovani.
(Kurt Vonnegut “Guarda l'uccellino” 2012, Feltrinelli)



sabato 11 gennaio 2014

Kurt

Ogni tanto fa piacere rivedere le foto di un vecchio amico. Ci manchi Kurt.



domenica 5 gennaio 2014

Vetrocemento: J.D. Ballard, "Il condominio"

Così dolce, così innocente...James Ballard bambino
L'approccio alla fantascienza di James Ballard mi ricorda il film “Alphaville” di Godard: ambientazioni quotidiane o comunque plausibili in cui si svolgono eventi incredibili. Nessuna super astronave e nessun mostro spaziale, ma situazioni e reazioni dei personaggi estremizzate al massimo. Il risultato, almeno in questo libro, è un'atmosfera di gelido iper-realismo in cui il verosimile è ingigantito fino a non essere più riconoscibile . “Il condominio” può per certi versi essere ricondotto a “Il signore delle mosche” di William Golding o “L'angelo sterminatore” di Bunùel: come queste opere si prefigge di dimostrare quale sia la natura profonda degli uomini, che in condizioni estreme e in assenza di un controllo sociale emerge facendo evaporare velocemente l'effimero travestimento delle buone maniere e delle convenzioni. Nel caso del premio Nobel Golding l'ambiente era un'isola deserta su cui approdava un gruppo di bambini naufraghi, allievi di una scuola esclusiva (quindi privi solo di parte delle strutture che condizionano gli adulti, comunque più vicini alla condizione primordiale che si cercava); il regista spagnolo immaginò un appartamento in cui un gruppo di persone adulte era inspiegabilmente prigioniero; qui il luogo dell'esperimento è qualcosa che incarna in qualche modo la straniazione e la familiarità degli altri due, trattandosi di un grattacielo di quaranta piani in cui la vita può essere quasi completamente autonoma dal mondo esterno: non solo gli appartamenti dei residenti, ma un centro commerciale, piscine, ristoranti e palestre, tutto quanto necessita -a parte, non a caso, un ospedale e una stazione di polizia- è contenuto nelle altissime mura dell'edificio. I suoi abitanti si dispongono a seconda del reddito e del tipo di lavoro a partire dai primi venti piani (dove si trovano le case più economiche) a salire, ed è subito evidente la prima separazione, la più classica: in basso stanno operatori televisivi, hostess di volo e casalinghe della media borghesia; più su troviamo docenti universitari, tantissimi analisti finanziari, gioiellieri, chirurghi estetici e in cima, al piano più alto, uno degli ideatori del palazzo, l'architetto Royal, reduce da un terribile incidente stradale. Il primo personaggio che incontriamo è però Robert Laing, insegnante di Fisiologia, abitante della fascia intermedia. Come appartenente ad una classe sociale medio alta, egli è abituato a considerare sé stesso al di fuori delle competizioni e dei contrasti di chi abita sopra e sotto di lui e gode di un punto di osservazione ideale. E' lui nella prima pagina del romanzo a constatare come gli eventi nel gigantesco palazzo abbiano cominciato da subito e senza un motivo scatenante a scivolare lentamente verso un baratro senza fondo. In poche pagine si passa infatti dai cordiali e affettati cocktail party durante i quali Laing conosce le inquiline del palazzo e valuta la possibilità di avere delle relazioni con loro, ai dispetti maligni tra piani che coinvolgono il danneggiamento di macchine, il furto, la devastazione e arrivano l'omicidio. E' subito chiaro che la situazione evolverà lasciando emergere sempre più decisamente nei condomini l'inclinazione umana verso la distruzione e l'autodistruzione, in un viaggio a ritroso attraverso gli stadi della civilizzazione fino agli inizi, quando i nostri lontanissimi antenati avevano appena conquistata la posizione eretta e vivevano nelle caverne, nel perpetuo timore di essere attaccati, ma altrettanto pronti a fare lo stesso con chiunque. E' qualcosa che c'è sempre stato dentro di loro, ineludibile, inarrestabile, e ci si abbandonano senza pentimento. Il palazzo mostruoso diventa un'entità a sé stante, il centro in cui si consumano delitti di ogni genere che attrae a sé i suoi abitanti fino a quando questi non sono più in grado di uscirne, ormai assuefatti alla sua realtà. A volte si ha quasi l'impressione che sia la costruzione stessa ad indurre la paranoia e a pilotare le azioni di chi la abita, inquilini e palazzo diventano un tutt'uno indivisibile. Da Laing il punto di vista si sposta all'architetto Royal e all'operatore televisivo Wilder, ognuno alle prese con la dissoluzione del proprio ambiente, ognuno pronto ad assumere un ruolo nel “Mondo Nuovo” che inesorabilmente sorge.
In questo libro troviamo abbastanza materiale per parecchi corsi di sociologia e antropologia; i comportamenti sempre più brutali e assurdi non hanno sostanzialmente influenza sulla struttura gerarchica di base della società-condominio: ad esempio Wilson, abitante dei piani bassi, riesce a raggiungere il quarantesimo piano, ma solo per essere sopraffatto, e lo stesso Laing rimarrà un uomo medio, intento a conservare il proprio piccolo territorio. L'unica vera rivelazione (ma sarà poi così?) è nel gruppo dei nuovi padroni, della stessa classe alto borghese ma donne, mentre più giù il genere perde qualsiasi volontà e diventa docile e sottomessa preda degli uomini. Un elemento misogino disturbante corre in queste le pagine ed è intuibile anche prima che la violenza si scateni. Nessuno dei “protagonisti” è dotato di una vera personalità, sembrano seguire dei binari, come se quello che vivono fosse stato ampiamente previsto e tuttavia non si potesse far nulla per evitarlo. Caratteristica questa che aggiunge una nota ulteriore di freddezza alla penna algida e chirurgica di Ballard: egli è un semplice osservatore, scruta attraverso un microscopio la vita di microrganismi su un vetrino e prende appunti, senza emozione e senza un briciolo di umorismo. Forse anche a questo dobbiamo la quasi assoluta mancanza di dialoghi, che pone il lettore di fronte a blocchi di testo infiniti dai quali non emerge umanamente nulla se non l'orrore dei fatti. E' il narratore a fornirci tutte le informazioni che i personaggi non ci danno, aggiungendo una nota di sgradevole quanto involontario didascalismo. A volte vorrebbero dare un minimo di profondità al personaggio, come nel caso dell'antagonismo tra Wilson e Royal che simbolizza esplicitamente quello del primo con suo padre. Il fatto è che nell'economia del racconto finisce per essere un tentativo maldestro e inutile, visto che nessuno sembra avere alcuna reale emozione (e ci mancherebbe) che lo porti a fare quello che fa. I meriti di lucidissima analisi dei meccanismi sociali di questo romanzo sono indubbi e lo stile di James Ballard ha una sua precisa filosofia coerente e originale nell'ambito della letteratura, soprattutto di fantascienza. Non vi nascondo però che la sera, pensando che “Il condominio” mi aspettava sul comodino accanto al letto non ero proprio al settimo cielo, e concluderne la lettura è stato un vero sollievo.


(J.D. Ballard “Il condominio”, Universale Economica Feltrinelli 2012)

sabato 4 gennaio 2014

Dal buco della serratura: "Due Storie Sporche" Alan Bennett

Se fino agli anni sessanta gli inglesi avevano la nomea di bacchettoni terrorizzati dal sesso, dagli anni ottanta in poi la loro immagine è progressivamente cambiata, e le giovani generazioni si sono dimostrate sessualmente molto più libere, abbastanza spregiudicate e un tantino inconsapevoli delle conseguenze (ricordo il fenomeno delle mamme teen-ager, che in Inghilterra fino a qualche anno fa erano un piccolo esercito e al quale MTV ha anche dedicato un format). Secoli di moralismo (e la religione cristiana) non si cancellano però facilmente, e da questa dicotomia sbocciano le “Due storie sporche” di Alan Bennett, in cui gli atteggiamenti sessuali del popolo d'Albione trovano il loro posto e sono adeguatamente sferzati dall'umorismo brillante di questo scrittore, che ne mette in luce i lati contraddittori e ridicoli.
Nel primo racconto, “Mrs Donanldson ringiovanisce”, incontriamo una non ancora sessantenne piacente vedova che per arrotondare lavora come finta malata in un ospedale a beneficio di praticanti di medicina. Suo compito è fingere sintomi di varia natura o talvolta sostenere in veste di figlia o di moglie la performance di altri colleghi. Oltre a ciò affitta parte della sua casa a studenti universitari. Sarebbe di per sé una situazione abbastanza interessante, ma quando un giorno l'attuale coppia di inquilini si trova nell'impossibilità di pagare l'affitto, le fanno una proposta abbastanza particolare. Mrs Donaldson accetta e le conseguenze saranno imprevedibili. Così una donna ormai ritirata dalla mondanità e che non rimpiange particolarmente la compagnia del marito morto -terribilmente noioso- riscoprirà il sesso in modo inaspettato. Mrs Donaldson è ben consapevole della propria età e constata, nonostante le proposte di un medico e di un collega all'ospedale, la differenza tra il suo corpo di donna matura e quello molto più giovane dei propri inquilini; tuttavia non prova invidia per loro, e riesce a sublimare la sua soddisfazione attraverso quella di altri. Assistiamo ad un confronto tra due generazioni che hanno vissuto e vivono il sesso il maniera totalmente opposta, chi come un dovere coniugale che avrebbe potuto essere più appagante, e chi come un esercizio ginnico ed esibizionistico che a tratti diventa puro spettacolo.
Mr Alan Python Bennett
Più classico e teatrale è l'impianto di “Mrs Forbes non deve sapere”, dove troviamo la borghesissima Mrs Forbes alle prese col matrimonio del figlio Graham con la poco attraente ma ricchissima Betty. Graham è bellissimo, narciso ed egocentrico, e la mamma -nonostante si applichi con caparbia devozione alla perfetta organizzazione dell'evento- non è per niente contenta della scelta di una donna non esteticamente alla sua altezza (anche se c'è da scommettere che nessuna a parte lei lo sarebbe); il pacioso e apparentemente innocuo marito non è invece per niente turbato e sembra anzi divertirsi un mucchio a punzecchiare la consorte non appena se ne presenti l'occasione. Nonostante i timori e le lamentele di Mrs Forbes alla fine tutto funziona a meraviglia, e il matrimonio di Graham e Betty sembra veramente un successo, anche se niente è come appare in superficie. Tutti hanno uno o più segreti in questa storia e sono quelli che la nostra protagonista, perbenista e ottusa, non dovrebbe conoscere. E' come un gioco in cui nessuno sa cosa gli altri sanno, ma tutti pensano che lei, solo lei, non sappia niente. I temi e i personaggi sono in questo racconto più facilmente riconducibili ad altri libri in cui lo scrittore e commediografo sferzava il moralismo borghese, anche se qui l'azione è serratissima e costruita attraverso continue sorprese. I colpi di scena si susseguono fino all'ultima pagina e sembra non esserci fine alle cose non dette. Al contrario del primo racconto, qui il lettore è costantemente informato di ogni cosa e può così osservare con lo stesso divertimento e distacco del narratore l'evolversi della vicenda e apprezzare il rutilante e perfetto ritmo comico.
Bennett ha scelto di osservare il comune senso del pudore e del sesso con gli occhi di due donne agli antipodi, e le interpreta con grande finezza e partecipazione: è facile affezionarsi a Mrs Donaldson, ma nemmeno si riesce a detestare la rigida Mrs Forbes; il punto di vista femminile è di per sé una scelta originale e mette al centro di un aspetto sempre più stereotipato e mercificato della vita due signore non più giovanissime che non rappresentano nella sessualità della società dei consumi un elemento appetibile, dimostrando quanto sotto sotto il moralismo ed i pregiudizi siano tutt'altro che superati. Potete ritrovarvi o meno in questa lettura (anche l'autore potrebbe non essere d'accordo), ma una cosa è certa, vi divertirete tantissimo a leggere questo libro.


(Alan Bennett “Due Storie Sporche” Adelphi, 2011)