La letteratura postmoderna Americana è una specie di mistero per me: anni fa ho provato a leggere Barthelme e devo ammettere di non averlo capito. Ho sfiorato John Barth e poi sono arrivata, del tutto casualmente, a Stanley Elkin. L'impressione che mi danno sempre questi scrittori è di usare le storie di finzione come una specie di travestimento per una critica o un sarcastico umorismo nei confronti della società e dell'estabilishment culturale. Sono veri intellettuali, abili nell'uso della lingua, autori raffinati i cui libri -si vede, si sente- sono molto pensati, a volte fin troppo.
Quest'astratta intellettualità non colpisce Elkin o almeno "Magic Kingdom", che pur risultando a tratti molto complesso soprattutto a livello di linguaggio, muove da elementi così carichi di pathos e di dramma da rendere necessario uno sguardo spietatamente ironico e allenato all'analisi del pensiero umano, allo smontaggio delle singole emozioni in modo da comprenderle ed esorcizzarle senza permettergli di farci prendere dalla disperazione e dal patetismo.
La storia di Eddy Bale è tragica: suo figlio Liam, dopo una lunga malattia è morto a dodici anni lasciando i genitori sotto choc. La moglie Ginny, incapace di affrontare il lutto insieme al marito lo ha lasciato e si è messa con un tabaccaio. Eddy è un uomo a cui non è rimasto nulla tranne i sensi di colpa. E tra i molti che ha c'è quello per aver fatto tanto per tenere il vita il bambino da dimenticarsi che appunto si trattava di un bambino e avrebbe dovuto divertirsi, nonostante tutto.
Così, forse in cerca di espiazione o per fare un omaggio postumo al figlio, cerca di organizzare un viaggio a Disneyland e portarvi sette ragazzini malati terminali. Nonostante le prime difficoltà, riesce a raggranellare i fondi necessari, poi viene la scelta dei collaboratori ed infine dei piccoli malati destinati alla "vacanza da sogno".
Così il viaggio ha inizio. Un viaggio incredibile davvero, tra malattia, morte, attori falliti vestiti da Pluto e Topolino in un regno irreale dove i piccoli nelle loro condizioni spiccano come creature spaventose dipinte da Bosch. Il contrasto tra l'atmosfera zuccherosa di Disneyland e la clamorosa realtà che v'irrompe con questa carovana d'Inglesi è a volte esilarante e scatena reazioni inconsulte, come nel caso del piccolo Noah, che viene assalito da un irrefrenabile consumismo che cerca di placare acquistando souvenirs di Topolino e Co. alla cieca.
E se i bambini sono malati nel corpo è evidente che gli adulti lo sono nello spirito. Ognuno di loro porta con sè la disperazione, la solitudine, una condizione di inadeguatezza. Mary Cottle ad esempio, impossibilitata ad avere figli fisicamente normali, non vuole un uomo e sfoga il suo nervosismo masturbandosi continuamente; Nedra Carp, la tata, è una donna perbenista, banale, incapace di amore disinteressato ma vittima di una famiglia allargata allo sproposito. Tutti verranno analizzati a fondo, il loro passato ed il loro presente, senza condanna, ma pure senza pietà. E alla fine i piccoli condannati capiranno di non essere loro i veri freaks, che i sani sono in realtà più malati di loro
L'ironia tragica e assoluta, forse già nel sangue di Elkin (ebreo di Brooklin, lui stesso vittima di una malattia degenerativa incurabile) riesce a far digerire al lettore cose terribili, i ricordi del calvario del piccolo Liam, l'umiliazione di Eddy costretto ad elemosinare denaro per le cure comparendo in televisione, rilasciando interviste ai rapaci giornali di gossip Britannici, i mali (spaventosi) che affliggono i piccoli del gruppo, la meschinità degli adulti che appaiono veramente miseri in confronto ai bambini di cui si devono prendere cura.
La critica alla società dei media, alla spettacolarizzazione del dolore, al consumismo (soprattutto Americano), al patetismo, alla visione che gli adulti hanno dell'infanzia ed alla finzione è cristallina e feroce, ogni movimento, ogni pensiero è scoperto e fissato sulla pagina.
Il Regno Magico resta sullo sfondo, scenografia attiva di tutta la vicenda che influenza i suoi ospiti e da loro è (anche se in apparenza non si direbbe) mutato. Quando Eddy Bale se ne andrà con tutto il suo carrozzone, Disneyland sarà irriconoscibile.
Se deciderete d'impegnarvi in questa lettura siate preparati, "Magic Kingdom" è densissimo, psicologicamente, intellettualmente e linguisticamente. Non è un caso che la scrittura di Stanley Elkin sia stata paragonata ad "un assolo di sax nell'orchestra di Duke Ellington" (cit. Rick Moody): i suoi periodi sembrano interminabili, con pagine e pagine occupate da testo che sta tra parentesi lontanissime l'una dall'altra, tanto che capita di perdersi e dover tornare indietro più volte per riprendere il filo, capire l'intonazione a cui pensava, cercare di intuire lo sviluppo successivo. Non mancano divagazioni, tutt'altro che oziose ma certo impegnative. Eppure, si resta ipnotizzati e in un attimo ci si trova a metà libro.
Ci vuole un pò di coraggio ad avvicinarsi a questa storia, sia per le tematiche che per lo stile letterario, ma certamente non ci si pente di averlo fatto.
Vi lascio con un'intervista all'autore del 1974, pubblicata dal "the Paris Review"...
(Stanley Elkin "Magic Kingdom" 2005, Minimum Fax)
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3 commenti:
Non credo lo leggerò mai,
ma davvero una bella recensione,
complimenti.
P.S. Ma sir duke non suonava il pianoforte? :-D
Boh, è un paragone che ho trovato sull'introduzione, io di jazz ci capisco come di idraulica...
Ho corretto la citazione...
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