sabato 16 giugno 2012

La signora delle ossa: "Trilogia della città di K" di Agota Kristof


Al termine del banchetto letterario arriva Agota Kristof: alcuni scrittori si sono rimpinzati di frasi articolate, altri hanno preferito un lessico lirico e fantasioso, altri ancora hanno riempito il piatto di descrizioni puntigliose e personaggi coloriti. Hanno lasciato pelle, ossa e cartilagini, periodi brevi, un solo tempo narrativo.
La scrittrice ungherese ha raccolto questi avanzi e composto una storia scheletrica e stratificata, una struttura mobile e trasparente.

All'inizio non si sa bene dove ci si trova, il racconto è limpido, gli eventi registrati, più che narrati. Due gemelli vengono portati dalla madre a casa della nonna nella città di K. Il paese è in guerra, e la nonna è una strega crudele, ma non c'è nulla da mangiare nella grande città, non c'è altro posto dove andare. Intorno a loro si svolgono vicende assurde, si muovono personaggi a volte raccapriccianti. Ma per quanto possa essere terribile, quello che accade viene semplicemente riportato con gelida precisione, senza alcun commento. Eppure l'atmosfera, priva di nomi di città e di paesi, di un riferimento temporale, è irreale, quasi una favola cattiva, oscura.
Non sappiamo ancora cosa stiamo leggendo e perchè.

Poi il guscio si apre, il bozzolo si dipana, il racconto prosegue allo strato successivo, cambiando punto di vista, mettendo insieme pezzi su pezzi, ossa su ossa, fino all'emergere di un senso che giustifica gli incubi e le visioni tra i quali s'intravvede la realtà -presunta.
La guerra finisce e la città di K rimane separata dal mondo, da una parte di mondo. Non si può andare al di là del confine.
La scrittura è sempre chiara, semplice, eppure ancora una volta ingannevole, non si può far altro che continuare a leggere, scendere di un altro scalino verso quella che speriamo essere la verità.

Agota Kristof, di madrelingua ungherese, scriveva in francese. Di questa lingua non fu mai per sua stessa ammissione completamente padrona. Forse il suo modo di scrivere derivava anche da questa circostanza. In questo caso avrebbe non solo dimostrato come per essere grandi scrittori non servano complessi apparati stilistici, ma avrebbe reso la propria debolezza una forza: dal suo linguaggio spogliato di qualsiasi intenzione poetica, di per sé freddo e affatto evocativo, è nata una storia di illusioni, separazioni ed esili autoinflitti, da cui emana la consapevolezza di un dolore così lungo, così profondo, che cauterizza e sostituisce qualunque altra emozione, e fa desiderare di non provare più niente.

Questo è il dolore degli esuli che come la Kristof hanno dovuto a malincuore abbandonare la propria patria (i riferimenti storici sono limpidi, anche se restano sempre sullo sfondo, come una conoscenza acquisita, parte ormai dei tessuti vitali dei personaggi), una ferita insanabile, profondissima, e infinita come la notte che avvolge i protagonisti di questa storia.
Non lottano né assecondano il destino, ci si adattano come se non ci fosse scelta, come se la vita fosse un binario che corre verso il nulla e dal quale non si può deviare. Non esiste speranza se non nella morte. Ciò che di crudele ed insensato fanno gli uomini è inevitabile. E quando tutto finisce non resta niente, non restano ricordi, non resta nemmeno traccia di quel dolore terribile che ha dominato tutta la vita.

Senza il regalo della mia amica Tiziana credo non mi sarei mai avvicinata ad un testo del genere; qualche volta sono stata tentata di smettere di fronte ad un racconto tanto duro, a volte insopportabile. Ma sono contenta di essere riuscita ad arrivare in fondo, si tratta di un libro straordinario, una scoperta.

(Agota Kristof “Trilogia della città di K” 2005, Einaudi Tascabili)


Nessun commento: