Al termine del banchetto letterario
arriva Agota Kristof: alcuni scrittori si sono rimpinzati di frasi
articolate, altri hanno preferito un lessico lirico e fantasioso,
altri ancora hanno riempito il piatto di descrizioni puntigliose e
personaggi coloriti. Hanno lasciato pelle, ossa e cartilagini,
periodi brevi, un solo tempo narrativo.
La scrittrice ungherese ha raccolto
questi avanzi e composto una storia scheletrica e stratificata, una
struttura mobile e trasparente.
All'inizio non si sa bene dove ci si
trova, il racconto è limpido, gli eventi registrati, più che
narrati. Due gemelli vengono portati dalla madre a casa della nonna
nella città di K. Il paese è in guerra, e la nonna è una strega
crudele, ma non c'è nulla da mangiare nella grande città, non c'è
altro posto dove andare. Intorno a loro si svolgono vicende assurde,
si muovono personaggi a volte raccapriccianti. Ma per quanto possa
essere terribile, quello che accade viene semplicemente riportato con
gelida precisione, senza alcun commento. Eppure l'atmosfera, priva di
nomi di città e di paesi, di un riferimento temporale, è irreale,
quasi una favola cattiva, oscura.
Non sappiamo ancora cosa stiamo
leggendo e perchè.
Poi il guscio si apre, il bozzolo si
dipana, il racconto prosegue allo strato successivo, cambiando punto
di vista, mettendo insieme pezzi su pezzi, ossa su ossa, fino
all'emergere di un senso che giustifica gli incubi e le visioni tra i
quali s'intravvede la realtà -presunta.
La guerra finisce e la città di K
rimane separata dal mondo, da una parte di mondo. Non si può andare
al di là del confine.
La scrittura è sempre chiara,
semplice, eppure ancora una volta ingannevole, non si può far
altro che continuare a leggere, scendere di un altro scalino verso
quella che speriamo essere la verità.
Agota Kristof, di madrelingua
ungherese, scriveva in francese. Di questa lingua non fu mai per sua
stessa ammissione completamente padrona. Forse il suo modo di
scrivere derivava anche da questa circostanza. In questo caso avrebbe
non solo dimostrato come per essere grandi scrittori non servano
complessi apparati stilistici, ma avrebbe reso la propria debolezza
una forza: dal suo linguaggio spogliato di qualsiasi intenzione
poetica, di per sé freddo e affatto evocativo, è nata una storia di
illusioni, separazioni ed esili autoinflitti, da cui emana la
consapevolezza di un dolore così lungo, così profondo, che
cauterizza e sostituisce qualunque altra emozione, e fa desiderare di
non provare più niente.
Questo è il dolore degli esuli che
come la Kristof hanno dovuto a malincuore abbandonare la propria
patria (i riferimenti storici sono limpidi, anche se restano sempre
sullo sfondo, come una conoscenza acquisita, parte ormai dei tessuti
vitali dei personaggi), una ferita insanabile, profondissima, e
infinita come la notte che avvolge i protagonisti di questa storia.
Non lottano né assecondano il destino,
ci si adattano come se non ci fosse scelta, come se la vita fosse un
binario che corre verso il nulla e dal quale non si può deviare. Non
esiste speranza se non nella morte. Ciò che di crudele ed insensato
fanno gli uomini è inevitabile. E quando tutto finisce non resta
niente, non restano ricordi, non resta nemmeno traccia di quel dolore
terribile che ha dominato tutta la vita.
Senza il regalo della mia amica Tiziana
credo non mi sarei mai avvicinata ad un testo del genere; qualche volta sono stata tentata di
smettere di fronte ad un racconto tanto duro, a volte insopportabile. Ma sono contenta di essere riuscita ad arrivare in fondo, si
tratta di un libro straordinario, una scoperta.
(Agota Kristof “Trilogia della città
di K” 2005, Einaudi Tascabili)
Nessun commento:
Posta un commento