Da
qualche anno lavoro nella scuola superiore con ragazzi disabili. La
loro condizione li porta ad avere difficoltà di comunicazione
immediata e di sviluppo di una Lingua Prima ben strutturata. Per
questo motivo quando usano l'italiano scritto inizialmente si lavora
di sottrazione, per rendere chiari i concetti. Una volta consolidate
le strutture di base, se il tempo scolastico lo permette si
introducono elementi di maggiore complessità e si arricchisce il
lessico. Questi studenti hanno spesso la percezione che per scrivere
bene si debbano usare tante parole: soggetto, verbo, complemento
oggetto non bastano, un italiano corretto prevede frasi lunghe e
complesse. Così distribuiscono articoli, preposizioni, congiunzioni
con gioiosa abbondanza, ma senza senso.
A
proposito degli esami di maturità, come ogni anno si trovano in rete
una serie di stupidari che raccolgono gli strafalcioni più eclatanti
degli studenti. Moltissimi errori di comprensione ("La teoria
dell'ostetrica" di Verga, "L'aperitivo categorico" di
Kant...) mettono il dubbio che i professori in classe si mangino le
parole o non sempre spieghino correttamente le definizioni, in
alternativa che alcuni redattori siano molto creativi. Altri
riguardano l'esposizione di concetti in parte esatti, che rovinano a
causa dell'iconoclastia sintattica e dell'uso casuale delle parole
funzionali -in particolare le preposizioni. Anche gli studenti
migliori, abbagliati dal miraggio di impressionare i commissari con
periodi articolatissimi, si perdono in un labirinto di subordinate.
Nella mia classe uno dei ragazzi più in gamba, attento, impegnato,
forte lettore, s'è beccato l'insufficienza nella prima prova.
Sono
stata ad una lezione di scrittura tenuta da un noto editor di una
notissima casa editrice. Tema era la scrittura
paratattica,
quella cioè che privilegia periodi brevi, frasi principali,
congiunzioni, e non utilizza subordinate. L'esempio più immediato in
letteratura è dato dagli scrittori americani. Al contrario, la
scrittura
ipotattica
è tipica della lingua italiana, ricca di frasi incassate, virgole,
"poiché", verbi al gerundio e così via. La spiegazione
era un po' tecnica ma interessante e ha sortito l'effetto di
risvegliare l'amor patrio nei cuori degli aspiranti letterati: più
d'uno infatti ha tuonato contro il misero stile paratattico, inadatto
-a loro parere- a indagare nel profondo, a raggiungere una
completezza
espressiva che
invece la nostrana letteratura ipotattica possiede. Eccoli, i poveri
maturandi di qualche anno fa, cresciuti e colpiti in testa dalla
Musa. Sono ancora ossessionati dall'idea di articolare frasi
immaginifiche che montano come la panna, impazziscono come la
maionese e raggiungono la completezza
espressiva totale.
Animati dal pregiudizio verso gli scrittori americani dimenticano che
la struttura paratattica è utilizzata in abbondanza nella
letteratura contemporanea di tutto il vecchio continente, basti
ricordare “Lo straniero” di Camus e l'opera della grande Agotha
Kristof, che straripano di completezza espressiva. Inutile dire che
(purtroppo per noi) tale spocchia si riflette direttamente nei loro
racconti. Ma tant'è, per molti italiani una scrittura comprensibile
e in apparenza semplice è sinonimo di superficialità e poca cultura
letteraria.
Ma
i corsi di scrittura sono solo il punto d'arrivo dell'enorme equivoco
che si perpetua a partire dalla scuola, alimentato dalla critica, da
intellettuali e scrittori italiani. L'arte deve essere complicata,
inafferrabile, a maggior ragione la letteratura. In gran parte il
motivo per il quale molti non leggono è questo: perché si annoiano!
E' difficile appassionarsi a volumi colmi di iperbolici fraseggi e
poveri di sostanza. Con i nostri programmi scolastici, quando uno
studente ha finito le superiori è già rovinato. Se alle elementari
e alle medie gli hanno fatto leggere Rodari e Calvino, le tegole di
Manzoni, D'Annunzio e Moravia lo stordiscono. Quando si risveglia
dopo il diploma, ha subìto un tale trauma che quando vede un libro è
invaso da un orrore irrazionale del quale -sempre a causa del trauma-
non ricorda il motivo. Non sto dicendo che si dovrebbero per forza
eliminare questi (e altri) autori dai programmi, anche se mi
piacerebbe. Solo dargli meno spazio, affiancargli i colleghi
stranieri, ampliare la prospettiva letteraria. All'inizio del
Novecento gli intellettuali italiani discutevano se fosse il caso di
aprirsi alle influenze letterarie straniere o restare arroccati nel
proprio palazzo di supponenza: l'Italia, paese della poesia classica,
patria di Dante, non poteva contaminarsi con la la plebea letteratura
straniera. Non abbracciare la novità fu un grave errore, che relegò
la produzione nazionale -già in ritardo sia in termini di
espressione linguistica, sia rispetto al genere del romanzo-
nell'angolo degli amatori, quasi sconosciuta all'estero, con
l'eccezione di Dante, che però non è un romanziere. Sì, D'annunzio
riuscì forse a creare un po' d'interesse intorno a sé, ma dovette
faticare non poco facendo altro (frequentare salotti, corteggiare
signore, pilotare aeroplani), diventando precursore dei tanti che
vendono libri non in virtù della validità di questi ultimi, ma
della celebrità acquisita dal loro (sedicente) autore in qualche
programma televisivo. Se chiedete a uno straniero chi è il primo
autore italiano che gli viene in mente probabilmente risponderà
Calvino, forse Ammaniti, forse addirittura Faletti.
Alla
fine la rivoluzione proletaria, almeno in letteratura è riuscita: la
scrittura “alta” dei baroni e dei tromboni italiani, la lingua
fiorita e vuota, farcita di ipotatticismi è stata vinta dal romanzo
plebeo che racconta in modo credibile (e comprensibile) storie
credibili di gente credibile e certamente più interessante di
qualche bamboccio viziato di inizio Novecento. Forse al Ministero
della Pubblica Istruzione ne sono fin troppo consapevoli, sanno
benissimo che se Verga dovesse essere affiancato nel programma da
Zola probabilmente evaporerebbe, e se si dovessero studiare “I
fiori del male”di Baudelaire o le “Illuminazioni” di Rimbaud
con la stessa devozione con cui si sciorinano le “Laudi” di
D'annunzio o le “Allegrie di naufragi” di Ungaretti,
difficilmente i secondi reggerebbero il confronto. Meglio nascondere
le prove della miopia intellettuale italiana e continuare a far
credere che abbiamo i migliori poeti e romanzieri, troppo difficili
ed espressivamente complessi per essere compresi da chiunque,
compresi i nostri indifesi studenti.
"Untangling your brain" |
E
così torniamo in classe, agli allievi, che indipendentemente dalle
caratteristiche individuali sono convinti che per prendere bei voti
si debba scrivere difficile, non importa cosa, la
forma è tutto.
Per scrivere invece serve qualcosa da dire, non basta essere bravi a
infilare parole su parole. E se si sa cosa raccontare, beh, non
bisogna mai dimenticare che scriviamo per un lettore e che ci
dobbiamo far capire. Ma se i programmi e i libri di testo prevedono
opere dal linguaggio eccessivamente complesso e povere di reali
contenuti, gli studenti -che a volte hanno solo la scuola come fonte
di stimoli letterari- non hanno scelta. Avvertono il disagio, hanno
difficoltà a studiare e scrivono componimenti inconcludenti, ma non
sanno perché.
Potendo
accedere a un manuale di storia o letteratura ve ne renderete conto:
spesso non si capisce cos'è successo, sintetizzare i fatti è
difficile, riassumere i concetti fondamentali è un bel casino, anche
per un adulto. (Per inciso, chi si occupa di libri scolastici delle
medie si lamenta di un livello linguistico sempre più basso
richiesto dagli editori. Alle superiori improvvisamente si deve
diventare fini letterati, analizzare con arguzia poemi e accadimenti
storici.)
Cosa
ce ne facciamo di libri che non capiamo? Sarebbe meglio forse, per
strutturare un pensiero chiaro e una lingua altrettanto chiara in cui
esprimersi (e magari divertirsi un po' di più), leggere Mark Twain,
Joseph Conrad, Emile Zola...la scelta è infinita. Qual è lo scopo
di arrovellare i neuroni su complesse descrizioni o l'italiano
dialettale dei letterati nostrani quando non si hanno gli strumenti
per comprenderli (pochissimi li hanno avuti da adolescenti), mentre i
loro contemporanei paratattici stranieri riuscivano a esprimere
meglio e più chiaramente la stessa idea letteraria? I vantaggi
sarebbero indubbi: studenti meno confusi, temi meno sconclusionati,
racconti meno asfissianti. E di conseguenza commissari di maturità e
docenti dei corsi di scrittura creativa molto più sereni. Un mondo
più paratattico, un mondo più felice.
(Dedicato al Pizza, grazie per la consulenza)
1 commento:
Urca
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