C'è una fantascienza da tempo fuori
moda in cui il progresso tecnologico e la scienza vengono scrutati
con timore e curiosità, in cui all'emozione e all'interesse per le
novità che porterà il futuro si contrappongono le paure dell'uomo
che si troverà ad affrontarli. A questo filone appartengono alcuni
racconti di autori dell'ottocento e dei primi decenni del novecento;
un nome per tutti è quello di Mikhail Bulgakov, che con “Cuore di
Cane” e “Le uova fatali”, non solo produsse una tagliente
satira della Russia dell'epoca (1925) ma espresse anche la segreta
angoscia per l'affermazione di un mondo in cui la scienza diventava
sempre più preponderante e aggressiva, votata all'inseguimento di
oscuri obiettivi di potere sull'uomo e sulla natura. Sono questi
racconti che si concentrano non tanto sugli aspetti tecnici degli
esperimenti quanto sulle loro conseguenze, per lo più nefaste.
In questo filone in cui la natura e la
materia inanimata e fredda si scontrano, prevalentemente europeo, si
può inserire in parte anche “Il grande ritratto”, un racconto
lungo di Dino Buzzati in cui le macchine danno corpo alle ossessioni
dei loro costruttori, diventando uno specchio che rimanda un'immagine
deformata e mostruosa. Pubblicato nel 1960 non ha velleità
satiriche, al contrario si concentra su temi tipicamente Buzzatiani
legati all'inconscio, alla morte, all'erotismo, alla paura di essere
sopraffatti da qualcosa di oscuro, che sfugge ad ogni controllo. La
vicenda è ambientata in montagna, in un'immaginaria Val Texeruda,
dove un segretissimo impianto militare è stato costruito da alcuni
scienziati ed è gelosamente custodito dall'esercito italiano. Il
professor Ismani viene invitato a lavorarci, e sebbene non gli venga
rivelato il suo compito, decide di accettare. Parte quindi con la
moglie Elisa e dopo un viaggio lungo e misterioso raggiunge la valle,
dove incontra i suoi colleghi Endriade (il capo del progetto),
Strobele e la di lui moglie Olga, sua ex allieva al liceo. Di più,
per correttezza verso i lettori non posso raccontare, perchè in
effetti la storia è molto breve. Non si tratta di un capolavoro,
anzi: l'abilità narrativa di Buzzati qui inciampa lasciandoci in
bocca l'amaro di personaggi poco caratterizzati (tranne Olga ed
Endriade, stereotipi abbastanza classici), di situazioni a volte poco
originali o irrisolte che avrebbero potuto generarne altre molto
interessanti, di una narrazione poco organica, quasi sfilacciata e
non da ultimo di un finale consolatorio. Nonostante tutto questo,
l'idea di trasformare la vita in qualcosa di morto per poterla
perpetuare all'infinito è affascinante e spaventosa, e l'immagine
della montagna contrapposta alla mostruosa opera mimica e devastante
dell'uomo, molto forte. Troviamo in questo racconto elementi che
torneranno in seguito (il luogo isolato, la solitudine, la missione
misteriosa, il protendersi verso un tempo indefinito che ritroveremo
ne “Il deserto dei tartari”) ma che restano sigillati come
boccioli di fiori maligni non schiusi, quasi che lo stesso autore non
abbia avuto il coraggio di spingersi oltre il limite. E' piuttosto
evidente che questo libro, nonostante la predilezione di Buzzati per
i racconti brevi, avrebbe dovuto e potuto essere ben più corposo,
per dare spazio ai desideri dei personaggi, caricare al limite
l'atmosfera oscura che comunque si sprigiona -anche se in modo
discontinuo- dalle pagine.
Sono da notare alcune scelte
linguistiche inconsuete, come l'uso del passato remoto e del presente
indicativo in due frasi consecutive che descrivono lo stesso istante,
con un effetto quasi cinematografico di campo e controcampo.
“Il grande ritratto” è un libro
letterariamente modesto, ma è pur vero che un'opera poco riuscita
come questa, con le sue imperfezioni e “reticenze” dice forse
molto più dell'autore, delle sue inquietudini e dei suoi turbamenti,
di quanto non facciano a volte lavori molto più riusciti.
(Dino Buzzati “Il grande ritratto”
, 2004 Mondadori)
2 commenti:
Se mai leggerò qualcosa di Buzzati,
sarà solo ed esclusivamente per
merito tuo. Sappilo.
Uao! Grazie!:)!
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