Prologo: io e il calcio
1) In generale lo sport non mi piace, non mi piacciono i soldi che ci vengono spesi, mi sembrano troppi. Qualunque sport per me è un gioco e non vale la pena di prendersela se si perde..
2) Sono calcisticamente atea, il calcio non esiste o almeno ne sono convinta io. E se anche esistesse non mi piacerebbe. Mio padre lo odia, il mio fidanzato è un tifoso di quelli che si accontentano di leggere i risultati sul televideo, nessuno nella mia famiglia (nemmeno il giovanissimo cugino) prova attrazione per esso. Ho iniziato a seguire le partite della Nazionale grazie ai commenti di Radio Popolare e della Gialappa’s Band, che sdrammatizzano la faccenda cogliendone i lati ridicoli, insomma per farmi due risate.
3) Anni fa quando ero a Londra ebbi un fugace innamoramento per l’Arsenal: ci giocava Tierry Henry, era una squadra operaia ed ero rimasta colpita dallo stadio di Highbury in architettura Liberty inserito tra le casette del quartiere (a Milano è una cosa impensabile!) e dalla stazione della metropolitana di Arsenal, dove sono riportate vecchie immagini della squadra e addirittura i disegni di molti piccoli sostenitori, lo trovavo tenero.
4) Una delle cose che mi hanno spinta a dare le dimissioni dal lavoro d’ ufficio che facevo è stata l’incessante tiritera calcistica dei colleghi: si parlava di calcio(e sempre della stessa squadra) dal lunedì al venerdì con qualunque scusa possibile, ripassando a memoria le partite della domenica, del mercoledì e prospettando i risultati degli anticipi del sabato.
5) Il mio giocatore preferito è Khan, perché era divertentissimo vederlo arrabbiarsi coi giocatori della sua squadra, e poi aveva dei basettoni che lo facevano sembrare molto old fashion.
Lui e il calcio
Inizialmente pensavo che questo libro fosse stato scritto come una specie di lunga giustificazione nei confronti delle donne che non amano il calcio, in modo da farsi comprendere da loro. In realtà, si tratta della storia di passione patologica per questo gioco,che condiziona ed influenza (molto al di là della mia personale comprensione) la vita dell’autore sin dall’età di 14 anni, quando suo padre lo portò per la prima volta ad assistere ad una partita dell’Arsenal. Lui era andato solo per fargli piacere ed invece di annoiarsi, come aveva temuto, si trovò fulminato sulla via di Damasco.
Niente fu uguale dopo quel giorno (14 settembre 1968) ed il calcio s’è spesso intrecciato così strettamente con le sue vicende personali che per molto tempo Hornby fu convinto che il suo destino fosse indissolubilmente legato a quello della sua squadra in una specie di tandem demenziale.
Comico a pensarci, o spaventoso. Se c’è un metro su cui valutare la propria esistenza, la propria capacità di reazione alle avversità della vita e le proprie ambizioni, lui lo individua in questo sport ed in questa squadra, e si fa un sacco di domande su come la vita vera potrebbe interferire con il suo essere tifoso, e come si comporterebbe, ben sapendo (di questo bisogna dargli atto) che le sue reazioni sarebbero esagerate ed incomprensibili per quasi tutto il resto del mondo.
Perché Hornby sa benissimo di non essere completamente “a posto” o almeno finge questa consapevolezza, quando ad esempio confessa l’assurda gelosia che provò quando la sua ragazza divenne tifosa dell’Arsenal, al punto che (meschinamente, per sua stessa ammissione) le fece capire che lui è l’unico, vero tifoso della coppia.
Perché Hornby sa benissimo di non essere completamente “a posto” o almeno finge questa consapevolezza, quando ad esempio confessa l’assurda gelosia che provò quando la sua ragazza divenne tifosa dell’Arsenal, al punto che (meschinamente, per sua stessa ammissione) le fece capire che lui è l’unico, vero tifoso della coppia.
I ricordi del padre, del rapporto con la sua famiglia allargata e delle sue ragazze, della sua carriera scolastica e lavorativa seguono di pari passo le sue vicissitudini di tifoso, il suo interesse per la squadra locale del Cambridge negli anni dell’università, quando andare a Londra ad Highbury era troppo lungo e dispendioso.
Come Louise Rafkin in “Lo sporco degli altri” (recensito precedentemente in questo blog) entrava in ogni particolare riguardante il mondo delle pulizie, Hornby penetra in tutte le minute pieghe del fenomeno calcistico, dalle squadre di provincia le cui partite sono seguite da una serie di personaggi strampalati (una delle parti più divertenti), al problema dell’agibilità degli stadi britannici.
Non si risparmia nulla e (a volte con coraggio) critica il sistema del calcio professionistico e lo stesso Arsenal (non solo per il gioco). Affronta anche i temi del razzismo e degli hooligans e segnalo l’episodio dello stadio Heysel che rappresenta uno dei paragrafi più dolorosi ed intensi di tutto il libro.Ci si poteva aspettare che dato il suo grado di ossessione ci passasse sopra, invece con il pragmatismo che è patrimonio dei popoli nordici prende posizione e riconosce (diversamente che in Italia, dove il calcio è ormai diventato il Circenses che serve a distrarre gli allocchi dai veri problemi) che non è tutto bello e che col gioco ormai si trascinano interessi di ben altro tipo che spesso avvelenano il piacere del seguire la propria squadra.
Su tutto comunque si percepisce una sorta di autocompiacimento dello scrittore nel verificare quanto oltre la sua passione sia arrivata, al punto di dettare le priorità alla sua vita ma anche quella di chi gli sta attorno; l’episodio in cui narra di non essere andato ad una festa di compleanno di una cara amica (a cui per atro erano state invitate solo cinque persone) perché all’ultimo momento era stata spostata proprio in quella data una partita dell’Arsenal è di quelli che lasciano esterrefatti e non fanno proprio ridere. Lui riconosce che il suo comportamento sia stato deprecabile (o-come dicevo- fa finta di riconoscerlo), ciononostante non solo l’ha fatto, lo rifarebbe!!!
Quindi non so quanto si possa considerare divertente nel complesso una confessione del genere. Si sorride spesso, ma non sono riuscita a superare la sgradevole sensazione che non ci sia niente di comico nell’ossessione dello scrittore, che fagocita e condiziona ogni scelta. In fondo cosa penseremmo di un drogato di gioco d’azzardo? Ci farebbe ridere una situazione del genere?
Dal punto di vista della scrittura “Febbre a 90” è molto gradevole, senza però picchi di stile; la lettura è veloce e la suddivisione del testo in brevissimi capitoli (uno per ogni partita "del cuore") rende possibile prenderlo e ri-prenderlo con una certa facilità (qualità molto utile soprattutto quando il tempo per leggere è poco e frammentato). Manca però a mio avviso la cattiveria, l’ironia acida che caratterizza lo humour britannico e ce lo fa tanto amare: penso ad Oscar Wilde, ad Alan Bennet e a come avrebbero scritto un libro del genere. Ci sono certamente umorismo e autorironia, ma Nick Hornby non sembra avere avuto (ai tempi) il coraggio di osare troppo.
(Nick Hornby “Febbre a 90” 2008, Guanda Editore)
4 commenti:
L'ho letto troppi anni fa per entrare
nel dettaglio della scrittura,
però ricordo che mi piacque molto,
ed io sono sì tifoso di calcio ma
non in dimensioni patologiche.
Più che altro gli eccessi che descrive
Hornby li ho vissuti quando avevo
15-16 anni, mentre il suo protagonista è drammaticamente over 30 se non ricordo male.
Il libro a mio avviso non è che
si ponga
l'obiettivo di spiegare alle lettrici cosa passi
nella testa di un tifoso di calcio,
semplicemente fa confliggere due
mondi, quello adulto e razionale
di lei e quello infantile, ossessivo e ripetitivo di lui.
In questo lo trovai molto divertente,
e in più di un passaggio ricordo che
mi sorpresi a fare sìsì con la testa...
Effettivamente come ho scritto non si tratta di un libro in cui l'autore si rivolge alle donne. Anzi, non c'è nemmeno questo contrasto tra mondo maschio e mondo femmina, l'unica parte in cui Hornby cita estesamente la sua compagna di allora è quello che cito, in cui lui diventa geloso della passione che lei condivide per la squadra e chiarisce che se c'è qualcuno che andrà alle partite in caso di maternità, sarà comunque lui non (come ipotizzato da lei) una settimana uno e una settimana l'altra. Forse hai visto il film e ti confondi con quello.
Non dico che non sia divertente ma c'è un lato ilare e un lato oscuro della cosa. E se la pulizia compulsiva e il gioco d'azzardo e l'ossessione per il cibo ci fanno inquietudine, anche questo anteporre il calcio ad ogni cosa, ogni cosa, per me è abbastanza pauroso.
Questo perchè non riconosci al calcio
come passione vitale,pulsante.
Se il protagonista anteponesse ad ogni cosa, chessò,
la musica o la letteratura, se vivesse per il cinema, se ogni suo respiro fosse per l'arte, magari ti
identificheresti di più e non lo
troveresti pauroso.
Lo dico al di là del valore del
romanzo, che nasce da una felice intuizione
ed è godibile, ma è chiaro che non è
accostabile agli autori classici che citi.
Mmmm, non lo so mica sai...Alla fine le persone -che se lo meritano- sono più importanti...Non potrei rinunciare al compleanno del mio migliore amico neanche per un concerto di Bob Dylan della tourneè del 1965. Lo sport sarà pure pulsante e vitale quanto vuoi, ma guarda che belle persone produce...
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