Kurt Vonnegut inventò la macchina del tempo molti anni fa. Più efficiente di qualunque worm-hole egli è stato in grado di manipolare questa dimensione al suo volere, come fosse Pongo: non solo in “Mattatoio 5” -in cui è frantumata e ricomposta mille volte come se non fosse infine importante una successione logica (temporale, appunto) degli avvenimenti- ma anche in molti altri romanzi, a partire da “Le sirene di Titano” fino a “Cronosisma”, che ha appunto per tema il sovvertimento del tempo come noi lo conosciamo.
“Galapagos” è l’ennesimo esercizio di quest’arte quasi filosofica per Vonnegut: una voce dal futuro che parla al passato di eventi che all’atto della lettura sono al futuro, ma che di fatto (svolgendosi la vicenda nel 1986) sono ormai al passato. Bisogna esserne capaci.
Protagonisti di questa avventura che porterà l’umanità alla sua estinzione, almeno per come la conosciamo, sono: un cacciatore di vedove che punta su un aspetto miserevole per fare colpo, un’ex insegnante di scienze e vedova, un faccendiere ricchissimo con una figlia cieca, uno scienziato giapponese e sua moglie, due fratelli –uno direttore d’albergo e l’altro capitano di marina- un cameriere, Jaqueline Onassis, Rudolf Nurejev, eccetera, eccetera.
Un’umanità quando mai variegata e disperata che si accalca, alla vigilia della fine del mondo come lo conosciamo, sulla costa di un paese ridotto alla fame (l’Ecuador), dalla quale dovrà salpare la lussuosa nave “Bahia de Darwin” per la Crociera Natura del Secolo.
Ma sappiamo da subito che farà poca strada, che molti personaggi moriranno, e quando moriranno. E sappiamo anche che tra milioni di anni, quando cioè la storia viene raccontata dalla voce del fantasma di un operaio americano morto nei cantieri in cui la nave fu costruita, l’uomo non avrà mani né gambe né un cervello grosso come quello di cui disponevano –al tempo- i protagonisti.
Vonnegut riesce a controllare perfettamente questa complessa strutturada maestro quale è, ma la macchina narrativa stavolta sembra avere troppi bottoni e manopole; è tale l’impegno richiesto per farla funzionare che l’equilibrio tra testa e cuore va irrimediabilmente perduto: l’umorismo triste ma irresistibile che ti costringe a ridere piangendo, gli intrecci sorprendenti tra esistenze apparentemente separate che si trovano legate da un piccolo particolare, le ironiche tragedie di ogni minuscola comparsa, sono eclissate dalla potenza del grande cervello di Kurt, ansioso di controllare il dispositivo alla perfezione.
Non troviamo nel racconto nessun vero personaggio con una personalità, nessuno che interessi l’autore abbastanza da soffermarsi sulla sua storia e sul suo carattere abbastanza da farlo emergere per rappresentare adeguatamente la tragedia che sta per inghiottire la razza umana.
La struttura è così rigida che non riusciamo neanche ad immaginarci i protagonisti muoversi, sono immobili, imprigionati senza voce (praticamente i dialoghi sono assenti) in un gelido tableaux vivant o (per citare Vonnegut stesso) in un blocco d’ambra.
Ironia del romanzo, è il Mandarax, un dispositivo in grado di tradurre da e verso moltissime lingue nonchè pedante dispensatore di sagge citazioni, l’unico personaggio minimamente approfondito nella sua fissità elettronica, e forse il vero alter ego dello scrittore, nonostante la confessione finale della voce narrante, che contiene il vero colpo di scena per tutti i Vonnegutiani e l' unico messaggio che stesse a cuore al nostro Kurt. Queste sono le pagine più calde e commoventi, anche se forse arrivano troppo tardi.
Nonostante questo non sia ( a mio modesto parere) un bel libro di Kurt Vonnegut -e chi mi conosce sa quanto mi costi in termini affettivi ammetterlo- ci restituisce ancora una volta (forse troppo nitida) un’immagine del suo autore, un uomo che non aveva più fiducia nel genere umano e che vedeva come sua sola salvezza la “regressione” intellettuale, la scomparsa di tutte le passioni dettate dall’intelletto, la rinuncia a tutto quanto costruito in millenni di storia.
Anche un’opera imperfetta può –quando lo scrittore è di valore- dare ispirazione.
(Kurt Vonnegut “Galapagos” 2004 Tascabili Bompiani)
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